Siete stoici o epicurei? Uomini di libertà o uomini d’amore? E la differenza tra il male del punto esclamativo e il bene del punto interrogativo la conoscete?
Se non sapete rispondere a queste domande è perché, dispiace tanto per voi, non avete mai avuto il piacere di conoscere il professor Gennaro Bellavista, alter-ego di Luciano De Crescenzo sia su carta che sul grande schermo.
Ad un giorno di distanza da Andrea Camilleri, ci lascia un altro grande della cultura italiana che, come lui, coltivava l’idea del sapere come di qualcosa da tenere doverosamente alla portata di tutti, di un bagaglio da condividere e non di cui farsi vanto per ergersi a personalità “migliore”. Grazie alle sue opere, impegnativamente leggere, moltissimi si sono avvicinati alla lettura e alla filosofia. I suoi film, poi, sono diventati dei piccoli cult che hanno trasportato nella realtà espressioni e ragionamenti, vere e proprie piccole “filosofie” quotidiane che ormai fanno parte del dna soprattutto dei campani, al pari di quelle ereditate da Totò, De Filippo, Troisi.
Proprio per la sua più grande qualità, quella di avvicinare anche l’uomo della strada alla cultura cosiddetta alta, De Crescenzo è stato a lungo denigrato all’interno dei palazzi degli intellettuali così come dai pulpiti universitari. Fior fiori di professoroni detentori di cattedre dai nomi altisonanti storcevano il naso a sentirne parlare, a scoprire i suoi record di vendite in libreria e al botteghino, a comprovare la sua popolarità. Perché ad alcuni baroni ha sempre fatto sia comodo che piacere che le conoscenze e gli strumenti per allenare al pensiero critico restassero nelle mani di pochi eletti, in mondi autoreferenziali, e credevano di screditare Luciano De Crescenzo in ambito umanistico chiamandolo “l’ingegnere”.
Ma il professore, come ormai era universalmente riconosciuto per associazione diretta con Bellavista, aveva solo seguito la sua vera vocazione. Nella sua “Storia della Filosofia Medievale” scriveva: «Credo di essere una di quelle scalette con soli tre gradini, che si trovano nelle biblioteche e che consentono di prendere i libri dagli scaffali che stanno più in alto». Ci azzardiamo a dire: De Crescenzo era un sincero socratico, un sostenitore dell’arte della maieutica, che fa partecipare l’interlocutore alla costruzione del sapere, senza pretesa di infonderlo dall’alto come una verità assoluta.
Anche chi non si è mai interessato alla filosofia dei grandi, attraverso le sue apparizioni televisive e, soprattutto, le sue opere filmiche, ha ricevuto un pezzetto di quella conoscenza a lui tanto cara; ha avuto modo di riflettere sulla condizione umana, sulle relazioni e le dinamiche sociali, anche sui massimi sistemi, come il bene e il male. La sua eredità più grande è proprio questa: aver reso accessibile a tutti tanta competenza. Esattamente come il professor Bellavista teneva lezioni per Salvatore il vice-sostituto portiere, Saverio il netturbino e Luigino il poeta, così Luciano De Crescenzo credeva che divulgare il sapere a chiunque fosse la sua missione su questa terra.
Con la sua raffinata ironia non ha mai schivato un confronto. La camorra, i mali di Napoli – che tanto amava, il capitalismo, perfino la morte. Era un uomo d’amore, De Crescenzo, che non riusciva a celare il suo passionale animo nemmeno dietro i suoi algidi occhi chiari e alla barba canuta. Un napoletano che è riuscito a rimanere genuinamente tale senza mai cadere nello stereotipo e, anzi, contribuendo al riscatto mentale della condizione di meridionale con quello che è diventato un altro suo celeberrimo adagio pluricitato: «A meno di non essere eschimesi, si è sempre meridionali di qualcuno».
Ora che lei non c’è più, professore, tocca a noi. Preservare la sua opera, farla conoscere ai più giovani, raccogliere il testimone delle sue azioni, oltre che della sua produzione, e diffondere cultura e sapere come in un gioco, con leggerezza e passione, proprio come piaceva a lei.