Le donne sono mediamente più scolarizzate degli uomini con una minore propensione all’abbandono scolastico (11,8% contro il 17,5% fonte: BES 2016 ISTAT) ed una maggiore partecipazione all’attività di formazione permanente (il 7,7% delle donne partecipa a formazione extra scolastica, formale o informale, rispetto al 6,9% degli uomini).
Il sorpasso è avvenuto oramai anche per i livelli apicali dell’istruzione (30,8% contro il 20% maschile), sebbene le donne laureate e specializzate, rispetto la media europea, siano ancora esigue rispetto al totale della popolazione adulta, con un gap deficitario marcato tra sud e resto del Paese. Merita riflessione se il dato risenta dell’offerta formativa localmente più ampia, con fenomeni di migrazione residenziale interna, o sia un effetto culturale di ruolo.
La questione rilevante è che a standard qualitativamente migliori, non corrisponde un impiego ottimale delle risorse, sia in termini di accesso, che di permanenza nel mercato.
Il gap tra generi si manifesta anche perché si è di fronte di un capitale umano sofisticato, spesso non spendibile.
Le donne studiano di più e meglio, sono mediamente più diligenti dei compagni dell’altro sesso, ma sbagliano l’obiettivo, scelgono materie poco appetite dal mercato. E fanno, quindi, meno carriera…
Nell’anno accademico 2014/2015 (fonte: MIUR 2016 Focus “Le carriere femminili nel settore universitario”), le studentesse rappresentano complessivamente il 56,2% degli iscritti, il 59,2% dei laureati, la metà degli iscritti ai corsi di dottorato di ricerca, ma emergono differenze, anche rilevanti, tra i vari settori di studio. Infatti, se da una parte si evidenzia una presenza massiccia delle donne nelle aree delle scienze umanistiche (75%) e delle scienze sociali (61%), dall’altra tale presenza si rarefà in ambiti a carattere tecnico-scientifico, raggiungendo il minimo nell’area di ingegneria e tecnologia (31%).
È chiaro che essere laureate in Filologia Romanza è molto interessante e conferisce sapienza, ma non garantisce un posto di lavoro in azienda, almeno non in linea col profilo del titolo di studio e, di conseguenza, una retribuzione consona agli anni dedicati alla formazione, sono questi titoli spesso neppure riconosciuti in taluni ambiti professionali.
E qui si coglie un pregiudizio sessista: le donne non sono portate per le materie scientifiche. Questo non è affatto vero e non ha base di verifica.
Sono, semmai, le metodologie di insegnamento ed il materiale scolastico che seguono lo schema cognitivo maschile e non permettono alle donne di conseguire prestazioni eccellenti.
Questo è un refrain comune a tutti i tentativi di conservazione di un privilegio. Nella misura in cui l’accesso a una funzione è vietato o reso difficile a un gruppo di persone, queste sono indotte a non investire nelle proprie capacità di svolgerla, così alimentando la tesi di una loro incapacità genetica e un circolo vizioso che può essere vinto soltanto con azioni positive volte a spezzarlo.
Il tema della segregazione orizzontale è biunivoca: la diversità è un elemento da tesaurizzare. Gruppi di lavoro monosessuati sono meno efficienti perché non colgono la visione dell’altro, non ricompongono l’insieme. È un problema di risonanza.
La lotta gli stereotipi è continua e diffusa. La filosofia sottesa al diversity management è la valorizzazione delle peculiarità, l’uguaglianza nelle differenza. Criteri come genere, età, religione, fede politica, status sociale servono a definire, non escludere profili differenti.
Federico Mattia Ricci