Alla fine è successo: dopo i primi tre casi isolati – la coppia cinese in vacanza a Roma e il ragazzo di ritorno dalla Cina – si è diffuso nel nostro Paese il temutissimo COVID-19, per gli amici semplicemente Coronavirus. A partire dal primo caso, il 38enne lombardo impropriamente definito “paziente zero”, le autorità italiane hanno effettuato una ricerca a tappeto scoprendo risultati preoccupanti, che portano il nostro Paese a divenire il terzo paese per contagiati da Coronavirus al mondo, dopo gli oltre 70mila casi in Cina e i seicento in Corea del Sud.
Più di 150, infatti, gli affetti dalla malattia nelle regioni del Nord Italia. E si parla, ovviamente, solo di quelli che finora sono stati rintracciati nel tentativo di contenere la diffusione della malattia. Un contenimento che parte forse in ritardo, a causa non tanto dei controlli – più stretti in Italia che nel resto d’Europa – ma della capacità che il virus ha di rimanere latente in portatori apparentemente sani, seppur già a loro volta contagiosi. Ciò ha portato anche al contagio di operatori sanitari e ha fatto sì che il virus compiesse la sua nociva opera a danno dei tre morti che si contano finora, tutti anziani e già affetti da patologie di altra natura che ne hanno aggravato la situazione.
Si sarebbe potuto fare di più? La risposta è probabilmente no. Anzi, l’allarmismo presso l’opinione pubblica italiana ha spinto la politica a dar luogo a misure di contenimento già restrittive nelle scorse settimane. Altrettanto severe – e definite, dal The Guardian inglese, «draconiane» le misure in vigore su scala regionale e nazionale una volta verificata l’epidemia sul suolo del Bel Paese: 50mila cittadini in quarantena fra Lombardia e Veneto, stop alle attività non essenziali e alle lezioni in scuole e università, ma anche a buona parte della Serie A calcistica.
Un blocco quasi totale che appare giustificato dalle contingenze più politiche che sanitarie: il virus – è vero – colpisce e uccide, specialmente tra gli ultrasettantenni, i già malati o gli immunocompromessi. E, in generale, può portare a polmonite nonostante nella maggior parte degli individui sani si sviluppi solo come un lieve malessere. È bene ricordare, in momenti di allarmismo come il presente, che l’80% degli affetti da Coronavirus sembrerebbe guarire in appena due giorni, stando alle fonti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Il che, ovviamente, non lo rende innocuo con certezza assoluta, specialmente per le categorie a rischio già citate, ma certamente aiuta come dato: nel mondo, per fare un confronto, lo scorso anno più di un milione di persone al mondo sono decedute a causa dell’influenza stagionale. Nel corso di quest’attuale ondata invernale, ne sono già morte 16mila.
Ciononostante, il dibattito politico in Italia era già saturato dalle polemiche in chiave strumentale all’operato del governo: voci forti si sono sentite, in particolare, a partire da Giorgia Meloni e Matteo Salvini. La leader di Fratelli d’Italia si era presentata, negli scorsi giorni, chiedendo a gran voce che il governo rispondesse a molte domande di carattere clinico – le cui risposte non sono ancora, a dire il vero, nemmeno in possesso dell’OMS. Matteo Salvini ha rincarato la dose, suscitando polemiche per il suo aver pubblicato la foto di Adriano Trevisan, il 77enne veneto, primo morto in Italia per Coronavirus, e corredando il proprio post non tanto di cordoglio quanto di attacchi politici verso il governo, in particolare al Partito Democratico e alla figura del premier Giuseppe Conte – il quale afferma di averlo poi chiamato al telefono, per non ricevere risposta.
Ma il governo, effettivamente, al di là del fatto che le misure di sicurezza siano troppo o troppo poco strette, sta facendo il suo dovere lato Coronavirus? La risposta non sta, in realtà, tanto nell’attività poltica macroscopica, quanto nel lavoro degli operatori sanitari e di enti come il Ministero della Salute e della sua task force all’opera per isolare il fenomeno epidemico rintracciandone fonti e diffusione.
Le scuole e i negozi chiusi possono aiutare, è vero, ma la vera forza dell’attività di contrasto al COVID-19 sta adesso nell’avere la maggior certezza possibile nell’inquadrare la diffusione di un virus che può rimanere latente fino a oltre due settimane, e che in quanto tale potrebbe già essere diffuso all’interno dei regimi di quarantena.