Non accennano a placarsi gli aftershock del microsisma causato dall’annuncio di ArcelorMittal, in settimana, col quale pubblicava la decisione di recedere dal contratto di cessione di Ilva. Un destino beffardo, simile per certi versi a quello di Alitalia, che lascia dietro di sé perplessità e insicurezze, oltre che un’enormità di problemi finanziari e lavorativi da risolvere.
Questo, oggi, è il punto prioritario per l’azione politica, industriale e sindacale. Eppure, nonostante sul caso Ilva siano state spese non solo parole, ma anche atti legali e garanzie, si è ben lontani dal raggiungere una conclusione accettabile tanto per lo Stato che per i cittadini di Taranto.
E più il caso si protrae, più alla deriva pare andare: il prevedibile downsizing che calerà, come un’ascia bipenne, sulla testa degli operai metallurgici tarantini, viene oggi difeso dal presidente degli Industriali Vincenzo Boccia, secondo il quale «[pretendere] che nonostante le crisi congiunturali le imprese debbano mantenere i livelli di occupazione [costituirebbe] un errore madornale». Non ci sta il segretario Cgil Maurizio Landini, che bolla l’intervento di Boccia come «parole senza senso». L’euro-indiana ArcelorMittal, cui oggi fa capo Ilva, ha chiesto 5mila esuberi per un’azienda che annovera nel suo storico recente già due cicli di cassa integrazione ordinaria, da quello – da poco chiuso – dedicato a 1395 lavoratori, al nuovo che ne riguarda 1276.
Così, ancora una volta, ci si allontana dalla soluzione del problema: quello di Ilva, l’acciaieria più grande d’Europa e fra le più inquinanti del mondo, nonché la linfa vitale e allo stesso tempo letale di un’intera città. Taranto è divisa tra chi, l’Ilva, la vorrebbe chiusa da subito – mentre spazza dal balcone le polveri cancerogene – e tra chi, pur pensandola allo stesso modo, deve poter rimanere impiegato per sfamare i propri cari.
Mentre, ancora una volta, si discute – inevitabilmente – dell’impatto economico e lavorativo dell’industria, si tende a lasciare sottotraccia la causa scatenante: il disastroso impatto ambientale di Ilva e gli interventi richiesti per la bonifica e la messa a norma dell’impianto, in una città che ancora oggi prevede l’istituzione di “wind days”, i giorni in cui le polveri sono portate dal vento verso la città e chiudono scuole, negozi, uffici, mentre si invita la popolazione a non uscire di casa.
I cittadini, riuniti in associazioni locali, hanno ben chiaro lo stato di cose: in giornata di sabato, hanno consegnato al premier Giuseppe Conte le carte del loro “Piano Taranto”, che prevede la chiusura delle fonti inquinanti e l’affidamento della successiva bonifica agli stessi operai Ilva, di fatto reimpiegandoli, per il successivo sviluppo di un’economia alternativa.
E qui starebbe la vera soluzione al problema Ilva: sfruttare il problema perché esso stesso costituisca la soluzione, agognata e oggi eticamente grigia, per poter garantire un futuro ai lavoratori in questione. Per far ciò, però, servono investimenti massicci: quelli che – scudo penale o meno – nessuno sembra voler fare, specialmente se Moody’s minaccia ArcelorMittal di possibili tagli al rating se questa continuerà a occuparsi di Ilva.
La finanza e l’industria hanno le loro regole: talvolta, però, il bene comune ne possiede altre e diametralmente opposte. Al momento, è probabile che solo un’azione di governo congiunta ed efficace possa obbligare ArcelorMittal ad adempiere ai propri obblighi, sollevare una reale “questione penali” e, infine, occuparsi di garantire un futuro verde – come l’ambiente e come l’iconica banconota – a una città disperatamente avvolta da miasmi formali e materiali.