La pandemia sta cambiando le regole del gioco. Rappresenta un vincolo sulle nostre esistenze, sui comportamenti da adottare, sulle scelte effettuate. È sotto gli occhi di tutti la portata del cambiamento: prima di entrare in un negozio, bisogna igienizzare le mani, indossare la mascherina, distanziarsi; per non parlare di quanto accade nelle palestre, dove una lezione di fitness va prenotata in anticipo, il tappetino devi portartelo da casa, negli spogliatoi non puoi più utilizzare il phon della struttura. Gli esempi si sprecano e investono ambiti della vita quotidiana ben più rilevanti: le scuole chiuse fino a settembre, lo smart work come bussola per tutte e tutti, la mobilità tra le regioni vietata forse fino al 3 giugno, sempre che il Governo non decida di prolungare il blocco. Ci sono poi i dati del Covid-19 che rappresentano una sorta di iperuranio numerico, all’interno del quale appare difficile decodificare la logica degli eventi. Volendo partire dagli aspetti certi, resi tali dall’esperienza concreta, concordiamo sul fatto che sia i decessi (di/con/per coronavirus), sia i ricoveri, ordinari e soprattutto quelli in Terapia Intensiva, sono nettamente diminuiti. D’altra parte, la curva dei contagi – i nuovi ammalati su base giornaliera – corre verso il basso, mentre corre in senso opposto quella dei guariti. Proprio sulle modalità di computo di contagi e guarigioni si è aperto un fronte di discussione che riguarda soprattutto la Lombardia, regione martoriata dalla pandemia. Il Presidente della Fondazione Gimbe, il Dottor Nino Cartabellotta, ha pronunciato parole durissime contro la Regione, che lo ha prontamente querelato. Secondo Cartabellotta, “In Lombardia – così dichiarava lo scorso 28 maggio a Mattino 24 su Radio 24 – si sono verificate troppe stranezze: soggetti dimessi dagli ospedali che venivano comunicati come guariti (…) è come se ci fosse una sorta di necessità di mantenere sotto un certo livello quello che è il numero dei casi diagnosticati”. Anche i dati sui nuovi contagi destano perplessità, ancora una volta a causa del disordine nella raccolta delle informazioni; come scrive Samuele Astuti, consigliere regionale del PD e membro della Commissione Sanità: “I database sono costruiti male; basti dire che gli esiti dei (pochi) tamponi sono pubblicati senza dire a che giorno risale il prelievo.” Se qualcuno pensa che ‘aggiustare’ i numeri serva a modificare la gravità dell’infezione, è destinato a prendere un’altra cantonata. Sul Fatto Quotidiano, Maria Rita Gismondo che è a capo della Microbiologia del Sacco di Milano, ha scritto che “fino ad oggi, i ceppi isolati nel mondo, anche dal nostro laboratorio, le cui sequenze geniche sono anche reperibili in banca dati, ci dimostrano che il virus muta molto poco, anzi quasi per niente”. Se, assieme al virus, non mutasse anche il nostro cervello, allora il problema che avremmo di fronte sarebbe davvero gigantesco. Se anteponessimo le ragioni dell’economica a quelle della salute, faremmo nuovamente un torto a noi stessi. In una lunga intervista rilasciata l’anno scorso a Linkiesta, Ilaria Capua ha detto parole illuminanti sull’urgenza di rivoluzionare l’approccio nello studio e nella cura delle malattie virali. Secondo la virologa più celebre d’Italia, il cambio di paradigma passa sia attraverso il ricorso trasparente ai big data offerti dalle nuove tecnologie informatiche, sia attraverso una diversa concezione della posizione dell’uomo rispetto alla natura. L’idea della posizione dominante della nostra specie su tutte le altre, che ha poi determinato catastrofi ambientali come i cambiamenti climatici (e non solo), deve essere del tutto abbandonata. Capua sottolinea come la biodiversità costituisca “l’elasticità del sistema di vita sulla Terra, lo spazio di manovra che la vita esibisce di fronte a cambiamenti lenti o rapidi. Se arriva una gelata, qualche piantina sopravvive perché aveva qualcosa di diverso dalle altre. Perché è diversa. Non so se mi sono spiegata bene: se tutti gli elementi di un sistema di vita sono geneticamente uguali, nessuno di essi sopravvivrà a una catastrofe che colpisca quella specie. Se invece fossero stati elementi diversi tra loro, forse qualcuno ce l’avrebbe fatta (…) Secondo l’ultimo rapporto delle Nazioni Unite, i motori che stanno asfaltando la biodiversità sono: lo sfruttamento indisciplinato della terra e del mare, lo sfruttamento eccessivo degli organismi viventi, il cambiamento climatico, l’inquinamento e le specie invasive. Non possiamo pretendere che a occuparsi di questi problemi siano il pangolino o il licaone, visto che in larga parte sono causati da noi, Homo sapiens.”
Foto tratta dal sito web euganeamente.it