L’Afghanistan, il paese degli aquiloni è tornato a volare

Il gioco dell’aquilone è un’usanza molto antica in Afghanistan; vietato nell’oscurantista periodo talebano era diventato il simbolo dei diritti negati. Ora, il venerdì, giorno di festività religiosa musulmana, il cielo di Kabul si riempie di colori. Gli aquiloni sono tornati a volare, con loro la speranza di un futuro migliore per questo paese. Tutto ciò è stato possibile grazie all’enorme sforzo della comunità internazionale e merito soprattutto degli uomini e delle donne impegnati ogni giorno sul campo.
Pascal Carlucci, Consigliere per la Riforma della Polizia Afghana presso la missione EUPOL-AFGHANSTAN, lavora da anni in Afghanistan e lo fa con grande dedizione e professionalità. Ex allievo del Collegio di Europa, ha frequentato il 1° corso di Relazioni Internazionali in Diplomazia che ha di fatto formato i Quadri iniziali del “Servizio di azione estera” . Nato in India, di madre americana e padre italiano ha vissuto per un periodo della sua vita in Pakistan, ha sempre avuto un occhio sul mondo e le relazioni internazionali sono sempre state al centro della sua esistenza. Ha lavorato nella Commissione Europea e in seguito al Ministero degli Esteri dove gli è stata offerta la possibilità di operare sul campo in Afghanistan, occasione questa che lui ha accettato con grande entusiasmo.

L’Italia ha sempre sostenuto attivamente sia il processo di ricostruzione sia di stabilizzazione dell’Afghanistan. Lei svolge un lavoro sul campo a diretto contatto con la popolazione. Come vede, secondo una sua opinione personale, il futuro di questo paese?
Il futuro dell’Afghanistan è in mano agli afghani. E’ la popolazione locale che deve necessariamente prendere la responsabilità del futuro di questo paese, la comunità internazionale in questi 10 anni ha sostenuto e incoraggiato, insieme al fondamentale appoggio degli afghani, un percorso in totale armonia con i nostri principi democratici e nel rispetto dei diritti umani fondamentali, poiché i diritti umani sono universali e valgono tanto per l’Afghanistan quanto per l’Italia. Spesso gli afghani ci chiedono: “insegnateci” e noi siamo pronti a sostenere e incoraggiare in ogni momento questa loro richiesta di conoscenza e di sostegno, ma c’è un limite all’assistenza. Noi possiamo creare le pre-condizioni per il miglioramento di un paese, ma non possiamo fare di più. Quanto lungo sarà poi il percorso per riuscire a vere risultati concreti è un altro discorso. Sicuramente lo Stato svolge un ruolo fondamentale, poiché è il punto di riferimento dell’intera popolazione; è pubblico, non discrimina, non fa differenza tra le diverse etnie, tra uomo e donna, ricco e povero. Più si rafforza il potere di uno stato che rispetta i diritti umani, più tutti noi siamo in grado di svolgere al meglio i nostri compiti. Sono testimone ogni giorno dell’enorme sforzo e sacrificio di tanti uomini e donne per raggiungere questi obiettivi. L’output è ed è stato nelle nostre mani, l’outcome è ora nelle mani della popolazione afghana.”
Quanto è importante il dialogo interculturale, la conoscenza reciproca e il rispetto delle proprie diversità per ricostruire un paese in guerra da 30 anni?
“Il dialogo interculturale è importantissimo, ma dipende dal tempo e dal percorso e dagli indicatori che si intendono seguire. Per un paese come l’ Afghanistan si deve tenere conto di tre indicatori: quello giuridico, che porta un ad cambiamento veloce; quello economico, che porta a cambiamenti positivi in un periodo di tempo relativamente breve; in ultimo l’indicatore sociale, legato indissolubilmente alla cultura del paese, che è il più lento di tutti e dove occorrono decenni prima che si percepiscano cambiamenti rilevanti. Nell’affrontare un problema di un paese bisogna sempre imparare a contestualizzare e capire dove può intervenire la comunità internazionale e dove invece iniziano i limiti di intervento. Non rappresenta un rischio se il paese continua a percepire ad esempio, l’aspetto tribale come parte indispensabile della loro cultura, ma diventa un rischio se ciò provoca una violazione dei diritti umani, come nel caso della discriminazione tra bambini e bambine legato all’educazione scolastica poiché per noi l’istruzione rappresenta un diritto universale. Lì interviene la comunità internazionale che deve creare la condizione per evitare questi rischi, ma come ho già detto è solo con una risposta positiva della popolazione che l’obiettivo diventa raggiungibile. Per arrivare al successo di questo ultimo indicatore noi operatori dobbiamo essere culturalmente preparati, conoscere gli usi e costumi della popolazione locale, indipendentemente dal lavoro che noi svolgiamo sul campo e questo non è semplice. Dopo l’11 settembre 2001 si è messa in moto una nuova fase delle relazioni internazionali che ha colto molte persone impreparate e ciò accade ogni volta che un evento improvviso cambia il corso della storia. L’Afghanistan era un paese di cui si sapeva pochissimo prima di quel terribile evento, ma non possiamo permettercelo e dovremmo essere in grado di confrontarci anche con civiltà lontane e diverse dalle nostre. Per quanto mi riguarda cerco sempre di tenermi aggiornato, mi scontro con dei limiti, non riesco e non posso naturalmente sapere tutto ciò che vorrei, ma ho imparato a sapere ascoltare e capire. La conoscenza reciproca rappresenta il punto di partenza per instaurare un dialogo e lavorare raggiungendo risultati positivi nel paese. Voglio spezzare la catena di pessimismo e dire che la strada da percorrere è ancora lunga, ma io sono ottimista, la comunità internazionale ha seminato molto e bene, ora staremo a vedere quale sarà la risposta della popolazione locale, ma sono più che convinto che tra qualche anno, organizzazioni non governative, gruppi di pressione e associazioni afghane si faranno strada per cercare di portare avanti socialmente il paese basandosi su principi democratici, ma non si può pretendere che i risultati arrivino quando lo vogliamo noi.”

L’educazione è la chiave per la risoluzione di molti problemi. La popolazione media del paese è molto giovane e rappresenta il futuro dell’Afghanistan. Sconfiggere questo enorme problema di una drammatica mancanza di istruzione è possibile o rimane solo una speranza?
“Una capillare alfabetizzazione deve diventare la nuova frontiera da raggiungere poiché non possiamo più permetterci, in un mondo così interconnesso, di tollerare ancora grosse fasce di popolazione mondiale che non sanno leggere e scrivere. Per noi italiani è intollerabile pensare che possano esserci bambini che non vadano a scuola, come possiamo tollerarlo per il resto del mondo? La conoscenza non deve essere il privilegio di pochi, ma un diritto di tutti e questo richiede ovviamente un grande sforzo. Il mondo è cambiato negli ultimi 30 anni grazie alla rivoluzione di internet e ciò vuole dire che il futuro lascia aperte delle possibilità non ancora esplorate. L’alfabetizzazione e l’informatizzazione potrebbero diventare nel tempo un connubio vincente. In Afghanistan, ad esempio, il numero di linee telefoniche è altissimo, quasi tutti possiedono un cellulare. Io vedo un paese che ha accesso alla connessione ma che allo stesso tempo non è pienamente padrone dell’informazione per problemi di analfabetismo della maggior parte della popolazione. Immaginiamo che nei villaggi delle zone remote tutti avessero un computer e potessero quindi avere accesso all’istruzione grazie a lezioni a distanza. Gli Afghani hanno sete di conoscere e di imparare e questo permetterebbe loro di studiare e prendere master americani o europei rimanendo nel proprio paese abbattendo i costi sociali ed elitari di un corso di laurea in un paese straniero. Ma formulare un programma di alfabetizzazione non è facile e richiede anni di studio, ma ritengo che internet e un’azione contro il digital divide potrebbero portare a risultati inaspettati. Oggi siamo ancora legati a uno stile di educazione vecchio stampo con aule, maestri e banchi, ma gli scenari futuri sono tanti e io sono fiducioso che si troveranno soluzioni adeguate e con costi sociali sicuramente meno alti di quanto non siano ad oggi.”
Dove si vede tra 10 anni e quali sono i suoi progetti futuri?
“Essere un ottimo figlio per i miei genitori, un ottimo marito per la mia futura moglie e un ottimo padre per i miei i figli sarebbe per me già avere raggiunto gli obiettivi più importanti della mia vita. Sono orgoglioso di essere italiano anche perché il mio Paese ha una naturale e sincera vocazione europea atlantica ed internazionale. Mi ritengo a servizio di questa vocazione e lo sarò per tutta la vita. Esistono molte sfide globali non necessariamente legate ad un’area geografica specifica e tutto si muove così in fretta che è difficile riuscire in questo momento a dare delle risposte e fare previsioni certe. Auguriamoci che in un futuro non ci siano più sfide così drammatiche e che ci si possa occupare di tematiche diverse.”
Perché lei è in Afghanistan?
“Prime del 2002 i Talebani avevano vietato l’uso degli aquiloni e punivano i bambini che li usavano; non si poteva ascoltare la musica e vedere film. Vivo a Kabul e ogni venerdì, che è un giorno abbastanza libero, sento i bambini ridere e giocare, apro la finestra e davanti a me si apre un paesaggio pieno di aquiloni colorati . Ne possiedo uno anche io che è e rimarrà il ricordo di una vita. Ecco tutto questo rappresenta per me la motivazione per rimanere in Afghanistan.”
Le opinioni espresse da Pascal Carlucci non rappresentano in alcun modo le opinioni del governo italiano e dell’Unione Europea

 

Barbara Gallo

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