Nel 1997, il velista Charles Moore scoprì, durante una gara in barca dalle Hawaii alla California, la più grande chiazza di rifiuti del pianeta. Si tratta della Great Pacific Garbage Patch, un’isola di rifiuti grande quanto la penisola Iberica, formatasi negli anni grazie all’opera delle correnti oceaniche che hanno convogliato al centro dei vortici oceanici una enorme quantità di rifiuti a partire dagli anni 80.
Attualmente, di isole di rifiuti, ne sono state scoperte 6 in tutto il Mondo, immense e nocive per l’ecosistema marino ma, qual è l’elemento principale che si trova in queste isole della vergogna?
Plastica? No, troppo banale e scontata come risposta, in un momento storico dove tutti improvvisamente siamo diventati estremamente sensibili al problema “plastica”. il materiale sintetico di consumo rappresenta solo l’8% circa di queste isole, La maggior parte della composizione di queste isole è dovuta all’accumulo di attrezzatura da pesca abbandonata.
Oltre il 46% dei rifiuti della Patch è costituito da reti da pesca, corde, distanziatori per allevamento di ostriche, trappole e ceste varie, 1\5 provenienti dallo tsunami del 2011.
Basandoci su questi dati, siamo sicuri che il problema principale sia la plastica oppure, come riportato dal Documentario “Seaspiracy” girato dal giornalista Ali Tabrizi, schizzato nella top ten di Netflix in pochissimi giorni, il vero problema è rappresentato dalla pesca commerciale?
Il Ministro dell’ambiente Sergio Costa, ha dichiarato che solo in un anno, in Italia sono state recuperate 6 tonnellate di reti abbandonate grazie al progetto “PlasticFreeGc”, reti fantasma che se non rimosse, continuano a pescare e ad alterare un ecosistema ittico sempre più minacciato e compromesso.
Alcuni studiosi e scienziati hanno ipotizzato delle date in cui il pesce potrebbe scomparire dai nostri mari se la situazione non dovesse cambiare. Questo porterebbe non solo a non avere più risorse alimentari provenienti dal mare ma, ad un problema molto più grande, l’imponente aumento della concentrazione di Co2 nell’aria. È stato scoperto da una ricerca dell’Università di Montpellier che lasciare i pesci più grandi nel mare riduce la quantità di anidride carbonica che normalmente viene rilasciata nell’aria. E questo vale per via del concetto del “circolo del carbonio blu”. Pesci di grandi dimensioni come il tonno, gli squali, lo sgombro e il pesce spada contengono circa il 10-15% di carbonio, “quando questi pesci muoiono, affondano rapidamente, di conseguenza la maggior parte del carbonio che contengono viene sequestrato sul fondo del mare per migliaia o addirittura milioni di anni”. I pesci diventano di fatto “serbatoi di carbonio”. Un processo naturale che è stato interrotto sempre più spesso dalla pesca industriale.
“Quando un pesce viene catturato invece, ha detto Gaël Mariani, ricercatore all’università di Montpellier in Francia – il carbonio che contiene viene in parte emesso nell’atmosfera sotto forma di CO2”.
I grandi pesci contribuiscono inoltre alla produzione di “plancton”, elemento indispensabile per l’assorbimento di Co2.
Le sole balene potrebbero assorbire il 40% di tutta la Co2 che produciamo, quattro volte quanta ne assorbe la foresta Amazzonica, avere anche solo l’1% in più di plankton nei mari significherebbe assorbire centinaia di milioni di tonnellate di Co2 l’anno, come se ogni anno apparissero di colpo due miliardi di alberi adulti.
Non solo la guerra alla plastica ci permetterà di migliorare e preservare l’ecosistema dei nostri mari, serviranno progetti di riqualificazione dell’ambiente marino, serviranno progetti per una pesca totalmente ecosostenibile e non fumo negli occhi…il tempo stringe.
La natura ci da quello di cui abbiamo bisogno, dobbiamo semplicemente rimetterla nelle condizioni ideali di poterlo fare.
Ci sono abbastanza risorse per soddisfare i bisogni di ogni uomo, ma non la sua avidità. (Gandhi)