I nuovi principi del codice della crisi si applicano non solo agli imprenditori, ma anche ai professionisti, imprese minori e consumatori.
Il Codice della crisi realizza un cambiamento di paradigma nell’approccio al debitore in situazione di difficoltà sia esso imprenditore, professionista, consumatore oppure impresa minore. I nuovi principi cercano di prevenire la crisi, imponendo di guardare in maniera prospettica e prognostica circa lo stato di salute dell’impresa, quindi, non basta più tenere sotto controllo il patrimonio netto a fine anno, ma non sono necessari strumenti di budget per monitorare l’andamento e intervenire prontamente al primo segnale di crisi, al fine di tutelare l’azienda e la sua continuità perché così si conservano i suoi valori latenti e immateriali a vantaggio dei creditori ma anche degli stakeholder, in primis i lavoratori, per passare a tutto l’indotto.
La riforma organica del diritto della crisi operata dal D.lgs. 14/2019, recante Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza (CCII), ha efficacia dal 15 luglio 2022, salvo l’entrata in vigore già nel 2019 di alcune disposizioni, tra cui la modifica dell’art. 2086 del cod. civ. sugli adeguati assetti organizzativi.
L’ambito di applicazione del CCII è molto ampio in quanto disciplina le situazioni di crisi o insolvenza del debitore, sia esso consumatore o professionista; imprenditore che eserciti, anche non a fini di lucro, un’attività commerciale, artigiana o agricola, operando quale persona fisica, persona giuridica o altro ente collettivo, gruppo di imprese; società pubblica, con esclusione dello Stato e degli enti pubblici.
Le nuove regole trovano, quindi, applicazione non solo all’imprenditore commerciale, soggetto in precedenza alle disposizioni del diritto fallimentare (l.f. – RD 267/1942), ma anche al debitore civile non imprenditore o imprenditore minore.
Le norme, tuttavia, individuano strumenti e regole diversi in funzione della tipologia di debitore, come per esempio le disposizioni sul sovraindebitamento – applicabili al consumatore, professionista, imprenditore minore – trasfuse nel CCII.
Le nuove regole fanno inoltre salve le disposizioni delle leggi speciali in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese, se la crisi o l’insolvenza di tali imprese non sono disciplinate in via esclusiva, restano applicabili anche le procedure del CCII; liquidazione coatta amministrativa, procedimento concorsuale amministrativo che si applica nei casi espressamente previsti dalla legge; le disposizioni delle leggi speciali in materia di crisi di impresa delle società pubbliche. Trattasi, dunque, di un intervento organico molto ampio che sistematizza il diritto della crisi largamente inteso.
Si noti che la riforma, diversamente da quanto previsto dalla legge delega, L. 155/2017, non abbraccia la disciplina sull’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, rimasta fuori dal perimetro del CCII, ma oggetto di modifica e integrazioni attraverso altri interventi normativi.
In estrema sintesi, l’istituto dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi è stato introdotto dal DL 26/1979 (legge Prodi), per evitare il fallimento di imprese di rilevante interesse pubblico. La legge istitutiva, nata come norma eccezionale, ha ricevuto diverse censure a livello comunitario, cui si è posto rimedio con il D.Lgs. 270/1999 (legge Prodi-bis) con cui sono state introdotte disposizioni in grado di velocizzare la procedura, con l’individuazione di un nuovo assetto imprenditoriale, potenziando gli strumenti di tutela dei creditori. Sulla disciplina generale dell’amministrazione straordinaria si è innestata la procedura speciale di ammissione immediata all’amministrazione straordinaria introdotta dalla DL 347/2003 (Legge Marzano). Tale ultimo decreto veniva emanato per far fronte al crack Parmalat, ma ha trovato applicazione anche in altri casi, come ad esempio Alitalia e ILVA.
In tale contesto si inserisce il DL 118/2021 che, al fine di razionalizzare le procedure di amministrazione straordinaria delle imprese, ha demandato al MISE la possibilità di nominare, con proprio decreto, come commissario, la società Fintecna nel caso in cui sia avvenuta la dismissione dei compendi aziendali; e le imprese si trovino nella fase di liquidazione; ovvero non siano stati completati i programmi di cessione dei complessi aziendali o di risanamento, di cui all’art. 27, comma 2, della Legge Marzano.
Le nuove regole trovano ispirazione da un diverso approccio, rispetto a quello ricavabile dalla legge fallimentare (l.f. – RD 267/1942), ossia favorire la conservazione dei valori aziendali e offrire una seconda possibilità al debitore. In particolare, le nuove disposizioni tutelano, non solo il soddisfacimento dei creditori attraverso la par condicio creditorum più o meno articolata, ma anche la conservare della continuità aziendale, attraverso strumenti che consentono il risanamento, qualora sia ragionevolmente perseguibile.
In maniera analoga, l’intervento di riforma coinvolge anche il debitore civile, quindi, non solo le imprese, ma i principi generali del CCII mutatis mutandis, trovano applicazione anche per le imprese minori, professionisti e consumatori che accedono agli strumenti contenuti nel CCII per la gestione della loro situazione di crisi, in primis le norme sul sovraindebitamento.
Il diritto della crisi di impresa necessitava di un ammodernamento, per rispondere alle esigenze di mercato, nonché aderire ai principi e alle regole comunitarie. Nonostante, negli anni la legge fallimentare avesse subito modifiche, tra cui quelle apportate dal D.lgs. 169/2007, finalizzate ad ammodernare le regole sulla crisi, gli interventi trovavano evidenti limiti. Le nuove disposizioni si inserivano all’interno di un corpo normativo, quello del RD 267 risalente al 1942, rendendo il terreno complesso e scosceso, a causa di interventi frammentati. In maniera analoga nel 2012 veniva introdotta un’importante normativa in materia di usura e di estorsione, nonché di composizione delle crisi da sovraindebitamento, ispirata a principi ben diversi da quelli della legge fallimentare e, quindi, disciplinata autonomamente nella L. 3/2012.
Il CCII risponde quindi a una duplice necessità ovvero di riformare il diritto della crisi che tenesse conto dell’esigenza di tutelare il credito e il suo possibile recupero ma che, al tempo stesso, contemperi la necessità di salvaguardare l’impresa in difficoltà, in quanto ciò consente di limitare gli effetti negativi legati alla morte civile dell’impresa, quali la perdita di avviamento, posti di lavoro, capacità imprenditoriali, know how; inserire le norme della crisi in un codice organico unitario, ispirato a principi comuni, applicabile all’imprenditore, soggetto a liquidazione giudiziale, ma anche al debitore civile, consumatore, professionista, imprenditore minore.
Il compendio di norme, riconducibili a regole di composizione e di natura concorsuale, aprono anche al debitore civile e trovano fondamento nelle regole di diritto internazionale. Nella fattispecie, la raccomandazione della Commissione Europea 12 marzo 2014 n. 135; regolamento (UE) 2015/848; model law, elaborato dalla Commissione delle Nazioni Unite per il diritto commerciale internazionale (UNCITRAL) in tema di insolvenza, cui hanno aderito molti Paesi anche in ambito extraeuropeo, tra cui gli Stati Uniti d’America; direttiva Insolvency – Dir. (UE) 1023/2019.
Segno epocale del nuovo approccio è l’eliminazione del termine fallimento dal lessico giuridico, aspetto simbolico di non poco conto con cui si vuole guardare in maniera diversa il rapporto tra debito e colpa, propria del sistema della legge fallimentare con retaggio medievale per cui il fallito andava punito, restituendo ai creditori ciò che restava dei suoi beni secondo una articolata par condicio. Si prende coscienza del fatto che il rischio è del vivere per cui sia al debitore civile sia all’imprenditore vada garantita una seconda chance.
Il percorso di riforma del diritto della crisi sicuramente non termina qui, sono in cantiere una proposta di direttiva della Commissione Europea, per armonizzare specifici ambiti del diritto della crisi, tra cui la revocatoria (Cfr. European Commission, Proposal for a Directive of The European Parliament and of the
Council harmonising certain aspects of insolvency law, 2022/0408). Inoltre, dovrà essere riformata la disciplina penalistica del nuovo diritto della crisi.
Il nuovo diritto della crisi non solo cancella la parola fallito dal dizionario giuridico, ma introduce il nuovo concetto di crisi, ossia una fase precedente all’insolvenza che al legislatore del 1942 non interessava. Il termine, in virtù del vero, era stato già utilizzato dalla legge fallimentare, nel caso per esempio del concordato, ma con un diverso significato. Tra l’altro proprio i concordati nella maggior parte dei casi finivano con la liquidazione del compendio aziendale.
Il nuovo diritto della crisi guarda in maniera prospettica a ciò che può accadere, fornendo strumenti per la prevenzione dell’insolvenza, iniziando dalla composizione negoziata che ha come funzione prevalente quella di prevenire l’insolvenza.
La crisi viene intesa come probabilità di insolvenza ma esiste un momento ancora precedente in cui l’impresa può far ricorso alla composizione negoziata, ossia la probabilità di crisi, si hanno quindi due momenti rilevanti prima dell’insolvenza per l’impresa, come la probabilità di crisi = stadio precedente alla crisi; probabilità di insolvenza = stadio precedente all’insolvenza. La probabilità di crisi, quindi, può essere vista come la probabilità della probabilità di insolvenza, una fase di pre-crisi detta zona di ombra (twilight zone).
Ciò conduce a individuare quattro fasi rilevanti: la pre-crisi (probabilità di crisi); la crisi (probabilità di insolvenza); l’insolvenza reversibile; l’insolvenza irreversibile (stadio terminale cui segue la liquidazione giudiziale).
I richiamati aspetti sono utili a chiarire gli impatti delle nuove norme e i principi da cui trovano ispirazione. La liquidazione giudiziale deve, infatti, rappresentare l’estrema ratio, perché oggi i valori aziendali sono principalmente nei beni immateriali che la liquidazione disperde, come per esempio l’avviamento, il know how, le esperienze operative, nonché i posti di lavoro. Pertanto gli stadi intermedi, prima dell’insolvenza irreversibile, iniziando da una situazione di pre-crisi meritano una particolare attenzione, in quanto è ormai un dato acquisito che intervenire prontamente rende il risanamento più semplice da perseguire.
L’intervento correttivo, quindi, ai primi segnali di crisi (early warning) deve essere tempestivo. Ciò ha condotto all’introduzione, nella disciplina civilistica, del secondo comma dell’art. 2086 cod. civ., in base al quale l’imprenditore ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi e della perdita della continuità aziendale.
Il concetto di continuità aziendale, precedentemente sconosciuto al diritto della crisi, diviene una delle finalità cui un adeguato assetto deve tendere. Il riferimento alla continuità aziendale è un chiaro segnale che, nel nuovo diritto della crisi, l’aspetto soggettivo dell’imprenditore interessa meno rispetto alla tutela del compendio aziendale, aspetto oggettivo, con tutti i valori soprattutto quelli immateriali che racchiude. La continuità aziendale può essere perseguita in maniera diretta oppure indiretta, se è prevista dal piano la gestione dell’azienda in esercizio o la ripresa dell’attività da parte di soggetto diverso dal debitore, art. 84 co. 2 CCII.
Il cambio di paradigma è evidente l’azienda in continuità, compendio di beni in funzionamento, riceve una specifica tutela anche in considerazione degli altri interessi da tutelare in primis quelli degli stakeholders, tra cui spiccano i lavoratori. Nella dialettica tra creditori e debitori per la soluzione della crisi trova, quindi, spazio un terzo centro di interesse ossia quello degli stakeholders, lavoratori dipendenti, che mirano, oltre a ottenere l’integrale pagamento dei compensi, a mantenere il posto di lavoro, quindi giovarsi della continuità aziendale. Ciò emerge in particolare nella composizione negoziata che riserva ai lavoratori una
specifica funzione, soprattutto in termini di interlocuzione sindacale con l’imprenditore in situazione di crisi.
L’adeguatezza organizzativa, cui si riferisce l’art. 2086 co. 2 cod. civ., deve avere anche un sistema di prognosi sulla salute di impresa, teso a rilevare tempestivamente la crisi e la perdita di continuità aziendale. Si realizza, quindi, uno stretto legame tra le norme di diritto commerciale, contenute nel codice civile, e quelle di diritto della crisi, contenute nel CCII.
Tra le regole che individuano i principi generali del codice, l’art. 3 CCII prevede una articolazione tra imprenditore individuale (art. 3 co. 1) e collettivo (art. 3 co. 2) cui viene richiesto rispettivamente di istituire le misure idonee a rilevare tempestivamente lo stato di crisi e assumere senza indugio le iniziative necessarie a farvi fronte (da parte dell’imprenditore individuale); l’assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato ai sensi dell’articolo 2086 cod. civ., ai fini della tempestiva rilevazione dello stato di crisi e dell’assunzione di idonee iniziative (da parte dell’imprenditore collettivo).
La norma dell’art. 3 CCII completa il quadro già definito all’interno dell’articolo 2086 cod. civ., pur rimanendo una regola elastica che richiede di istituire misure e assetti adeguati, in relazione alla natura e alle dimensioni dell’impresa, rispetto alla funzione ben determinata di consentire le richiamate rilevazioni. L’imprenditore, dunque, potrà giovarsi di ampia flessibilità nel definire le misure o gli assetti, attraverso strumenti di economia aziendale in grado di monitorare l’attività di impresa e individuare le prospettive in termini di continuità aziendale, identificando i segnali di crisi.
Le nuove regole realizzano un ulteriore cambio di impostazione per cui si passa da una legislazione di tipo esecutivo, propria della legge fallimentare, riconducibile a una procedura di esecuzione forzata, verso un diverso equilibrio che dall’esecuzione passa alla contrattazione, mediazione, quindi ci sarà meno spazio alle procedure e più alle negoziazioni. Il giudice, pertanto, avrà compiti diversi nel nuovo contesto di norme, rispetto alle procedure esecutive, tenuto a valutare soltanto che gli accordi siano raggiunti in uno scenario di legalità. Ciò è molto chiaro nella scelta, del tutto nuova nel nostro ordinamento, di avere individuato all’interno della composizione negoziata la figura dell’esperto mediatore, facilitatore per il raggiungimento di un accordo tra imprenditore, creditori e le altre parti interessate. La negoziazione richiede il rispetto di una clausola generale su cui ruota la disciplina civilistica, ossia la correttezza e buona fede, principio all’apice del nostro ordinamento, cui le parti devono conformarsi nella trattativa, nella negoziazione e nell’esecuzione del contratto.
Ogni accordo vede le parti contrapposte, per tutelare naturalmente i singoli interessi, ma la tutela degli interessi della singola parte non deve pregiudicare ingiustamente l’altra parte raggiungendo quindi un punto di equilibrio. La correttezza e buona fede, propria di sistemi di soluzione della crisi di tipo negoziale, non caratterizzano il procedimento, nelle vecchie diposizioni, perché le parti non sono in posizioni contrapposte. I principi di correttezza e buona fede sono, invece, espressamente previsti nel CCII, come nell’art. 4, art. 16 co. 4, 5, 6, art. 21, principi che diventano importanti anche nel passaggio al concordato liquidatorio semplificato ai sensi dell’art. 25 sexies CCII.
Il diritto della crisi diviene centrale nel diritto commerciale e nel diritto civile in generale, nel senso che sfuma il tradizionale confine tra l’ambito di applicazione delle regole di diritto civile e di quelle sulla crisi. Il punto di contatto più evidente è dato dalle disposizioni sugli adeguati assetti organizzativi, disciplinati nell’art. 2086 cod. civ. co. 2 e meglio declinati nell’art 3 del CCII.
Il codice della crisi ha stabilito specifici obblighi in capo all’imprenditore che opera in forma societaria o collettiva, ossia per gli amministratori, al fine di prevenire e gestire il rischio in maniera diligente, attraverso l’istituzione di un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e dimensione dell’impresa. Ciò comporta, nell’operatività pratica, l’obbligo per gli amministratori di trovare il giusto
equilibrio tra urgenza di fare business, da un lato, ed esigenza di preservare le condizioni per continuare ad operare, dall’altro.
In particolare, gli amministratori sono tenuti, ai sensi dall’art. 2086 co. 2 cod. civ., ad istituire un assetto organizzativo amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa anche in funzione della rilevazione tempestiva rilevazione della crisi di impresa e della perdita della continuità aziendale.
L’articolo 3 co. 2 del CCII si ricollega testualmente a quanto previsto dall’art. 2086 cod. civ. senza tuttavia ripetere l’avverbio “anche” stabilendo che: “L’imprenditore collettivo deve istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato ai sensi dell’articolo 2086 del codice civile, ai fini della tempestiva rilevazione dello stato di crisi e dell’assunzione di idonee iniziative”. Il significato della mancata riproposizione dell’avverbio “anche” è dovuto al fatto che nel CCII la rilevazione tempestiva della crisi e l’assunzione delle idonee iniziative sono centrali, mentre nell’art. 2086 cod. civ. – inserito tra le regole generali applicabili all’imprenditore – gli adeguati assetti sono deputati a svolgere anche altre funzioni oltre alla rilevazione della crisi.
In ogni caso, rilevata la crisi, l’art. 2086 co. 2 cod. civ. impone agli amministratori di attivarsi senza indugio al fine di adottare e attuare uno degli strumenti previsti dall’ordinamento; superare in tal modo la crisi e recuperare la continuità aziendale.
L’adeguatezza degli assetti va misurata in ragione della capacità di tenere sotto controllo possibili situazioni di crisi attraverso un attento monitoraggio; rilevare con tempestività allo stato di crisi; consentire l’assunzione di iniziative idonee al superamento della crisi attraverso strumenti previsti dal legislatore.
La definizione di crisi individua la soglia oltre cui gli amministratori devono ricorrere a uno strumento per la regolazione della crisi. La norma testualmente si riferisce alla crisi di impresa e alla continuità aziendale, concetti che essendo riportati entrambi dalla stessa disposizione non possono essere interpretati come fattispecie coincidenti. In altri termini, il legislatore non può ripetere due nozioni con lo stesso significato ad abundantiam o in maniera ridondante nello stesso articolo, ma è necessario attribuire alle due locuzioni un significato diverso. Ciò porta a ritenere che possono esistere casi in cui vi è crisi di impresa, ma la continuità non è persa. Il superamento della crisi richiede anche il recupero della continuità, la norma ripete entrambi i due concetti, quindi, il superamento della crisi potrebbe non necessariamente comportare il ripristino della continuità.
Risulta semplice inquadrare il concetto di insolvenza, punto fermo nel CCII che riprende testualmente quanto già previsto nella legge fallimentare (art. 5 co. 2 l.f.), definita come: “lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”.
Il perimetro della definizione di insolvenza, non essendo mutata la definizione nel CCII rispetto alla legge fallimentare, può essere facilmente individuato facendo riferimento alla giurisprudenza consolidata.
In estrema sintesi si osserva che l’insolvenza si caratterizza per il carattere strutturale; la rilevanza della condizione di fronte alla generalità dei creditori; rilevanza della valutazione prospettica per cui non vi è possibile adempiere regolarmente alle obbligazioni già scadute.
Il concetto di crisi, invece, è stato oggetto di diversi interventi normativi da parte del CCII. L’articolo 2 lettera a) CCII, nella versione originaria, definiva la crisi come “lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate”. L’articolo 2 lettera a) CCII dopo le modifiche del D.lgs. 147/2020 definiva la crisi come: “lo stato di squilibrio economico-finanziario che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate”.
La richiamata definizione ha subito diverse critiche per la sua eccessiva ampiezza, anche alla luce della necessità di ricorrere al sistema di composizione assistita prevista nella previgente formulazione normativa del CCII, mai entrata in vigore. L’articolo 2 lettera a) CCII dopo le modifiche del D.lgs. 83/2022 definisce la crisi come: “lo stato del debitore che rende probabile l’insolvenza e che si manifesta con l’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte alle obbligazioni nei successivi dodici mesi”.
L’aspetto centrale e di primario rilievo della definizione è la probabilità di insolvenza, ossia lo scenario prospettico prevalente, pur non mancando altri scenari realistici alternativi per l’impresa. Nella crisi devono, quindi, sussistere alternative ragionevoli all’insolvenza rappresentabili in piani economici, finanziari alternativi, sebbene si parta da uno scenario prospettico più probabile in cui i flussi di cassa si presentano non adeguati a far fronte alle obbligazioni.
In una situazione di crisi possono tuttavia coesistere l’inadeguatezza dei flussi di cassa, secondo degli assunti probabili; l’irregolarità dei pagamenti in situazioni occasionali, si pensi al ricorso alla cessione di crediti per regolare una situazione contingente una tantum con mezzi anormali.
Ciò che distingue la crisi dall’insolvenza è la mancanza, in quest’ultima, di variabili plausibili alternative ai fini dell’elaborazione del Piano prospettico dei flussi di cassa. In altri termini la situazione prospettica denota certamente un’insolvenza.
Il test dei flussi di cassa cui si riferisce la definizione di crisi (art. 2 co. 1 lett. a) CCII: “inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte alle obbligazioni nei successivi dodici mesi”, funge da conferma per una più approfondita analisi, ma non va visto in maniera assoluta, perché va tenuto in considerazione il fatto che il periodo di 12 mesi non sia rappresentativo.
Da un lato nel periodo di 12 mesi si può recuperare dalla situazione di crisi, nonostante nei primi mesi fosse evidente dall’osservazione dei flussi di cassa; dall’altro oltre il periodo di 12 mesi potrebbero esservi obbligazioni che pongono l’impresa davanti alla probabilità di insolvenza.
Flussi di cassa negativi, dunque, durante un periodo di 12 mesi non sempre degenerano in una situazione di crisi, se vi sono prospettive di recupero. Di contro, flussi di cassa positivi non consentono di escludere la crisi se al termine del periodo vi sono obbligazioni che l’impresa non è in grado di onorare.
In altri termini, non possono ignorarsi – per escludere la situazione di crisi – le probabilità di recupero della continuità aziendale che siano ragionevolmente pronosticabili nell’arco temporale di 12 mesi, con conseguente recupero della continuità. L’adeguatezza dei flussi di cassa prospettici che la disposizione sembra limitare nell’arco dei 12 mesi, invece, non può costituire una certificazione di assenza di crisi, in quanto non si possono ignorare eventi probabili, qualora siano pronosticati per un periodo successivo ai 12 mesi.
In tema di continuità aziendale, la conferma per esempio da parte del socio circa il sostegno finanziario all’impresa in crisi, può far assumere un giudizio positivo sulla continuità aziendale, ma non è tale da escludere la crisi.
L’individuazione degli assunti plausibili sull’evoluzione dell’andamento societario richiede valutazioni gestorie, dipendenti dalla business judgement rule degli amministratori, tenuti tra l’altro a verificare, ai sensi dell’art. 12 co. 1 l’opportunità di fare accesso alla composizione negoziata.
La composizione negoziata, già disciplinata nel DL 118/2021, è stata trascritta con limitatissime modifiche nel CCII, sostituendo la composizione assistita contenuta nella Titolo II, Parte I del Codice. La disciplina sulla composizione negoziata introduce un ulteriore concetto nel corpo normativo, ossia lo squilibrio
patrimoniale, economico-finanziario che rende probabile la crisi o l’insolvenza, la cui sussistenza consente all’imprenditore, agli amministratori delle società, di accedere allo strumento di composizione.
Il presupposto per l’accesso alla composizione negoziata, la cui scelta ricade nell’ambito del giudizio degli amministratori, secondo la business judgement rule, è dato dalla condizione di squilibrio patrimoniale o economico finanziario che rende probabile la crisi o l’insolvenza.
Le situazioni di squilibrio individuate dall’art. 12 co. 1 CCII, di tipo patrimoniale o economico-finanziario, divengono presupposto per l’accesso alla composizione negoziata, per scelta volontaria da parte dell’imprenditore o dell’organo amministrativo, secondo il loro giudizio circa l’opportunità di utilizzare la composizione per risolvere la situazione di crisi probabile. I richiamati squilibri, quindi, divengono presupposto per l’accesso alla composizione negoziata, qualora abbiamo come effetto quello di rendere probabile la crisi e l’insolvenza. In tale contesto, la natura economica, finanziaria oppure patrimoniale dello squilibrio poco rileva, essendo determinante il suo effetto sulla probabilità di crisi o di insolvenza.
Risulta nuovamente cruciale, dunque, una valutazione prognostica sull’evoluzione probabilistica dell’andamento di impresa, per verificare la probabilità che le situazioni di squilibrio possano degenerare in crisi o insolvenza. La natura dello squilibrio e il suo monitoraggio sono più un invito da parte del legislatore a investigare tali dimensioni, poco rilevando la natura inizialmente economica, finanziaria oppure patrimoniale dello squilibrio, essendo necessaria la valutazione circa l’evoluzione dello squilibrio in probabilità di crisi o di insolvenza.
Tra l’altro una situazione di squilibrio economico, non transitorio, spesso genera uno squilibrio finanziario e patrimoniale. In maniera analoga, uno squilibrio patrimoniale può innescare squilibri economici e finanziari, oppure, uno squilibrio finanziario può propagarsi sulle altre due dimensioni economiche e patrimoniali. Pertanto, trattare separatamente lo squilibrio economico, finanziario e patrimoniale ha scopo meramente illustrativo, essendo tutte e tre dimensioni che conducono a una unica situazione di squilibrio rilevante qualora vi sia probabilità di sfociare in crisi o insolvenza.
Lo squilibrio economico può essere definito come lo stato di una impresa non in grado di generare un flusso di redditi positivi. La verifica va effettuata tenuto conto dei dati storici e, soprattutto, di quelli prospettici, visto il nuovo approccio forward looking su cui trovano ispirazione le disposizioni del nuovo diritto della crisi di impresa. L’ambito di valutazione deve essere abbastanza ampio, tale da normalizzare, eventuali situazioni eccezionali, come per esempio periodi di redditività eccezionalmente positiva o negativa.
Lo strumento di facile applicazione per la valutazione della redditività operativa è l’EBITDA (o MOL), cui fa ampio riferimento anche il Decreto Min. Gius. 28 settembre 2021. Il richiamato margine, in prima approssimazione, consente di analizzare l’equilibrio economico, previe opportune correzioni rispetto ad eventuali componenti straordinarie di reddito.
In particolare, il margine operativo lordo può dare indicazioni, semplificando, sulla capacità di autofinanziamento operativo della gestione, che se negativo mette in luce una situazione di squilibrio economico e finanziario, ovverosia l’incapacità della gestione operativa di generare liquidità in quanto i costi (uscite) sono più elevati rispetto ai ricavi (entrate). La marginalità negativa, non sostenibile, può condurre alla crisi o insolvenza, in mancanza di opportuni correzioni.
Le imprese devono dotarsi di adeguati strumenti per il monitoraggio degli andamenti prospettici. Utile strumento a tal proposti è il budget economico, in grado di evidenziare eventuali tensioni sulla redditività dell’impresa. Il budget economico va poi affiancato a un sistema di programmazione e controllo anche di natura finanziaria, quanto meno con strumenti che consentano di rapportare le entrate e le uscite in un adeguato arco temporale prospettico. La programmazione prospettica richiede poi una verifica a
consuntivo: una volta terminato il periodo di programmazione si dovranno effettuare i controlli e l’analisi degli scostamenti.
Lo squilibrio finanziario si ha nel caso l’impresa non sia in grado di procurarsi tempestivamente fonti di finanziamento per far fonte ai fabbisogni. Le difficoltà finanziarie possono essere innescate da uno squilibrio economico, frutto per esempio di una errata strategia.
Tuttavia, non si escludono casi in cui lo squilibrio finanziario porti conseguenze sulla redditività. Si pensi a un cliente che non paga entro le scadenze un’importante commessa. Pur essendo la commessa in perfetta marginalità economica, il mancato o ritardato pagamento può innescare un circolo vizioso con rischi di propagazione sulle altre due dimensioni economiche e patrimoniali dello squilibrio.
La verifica e monitoraggio dell’equilibrio finanziario trova nel rendiconto finanziario, un primo strumento di valutazione, attraverso cui studiare i flussi finanziari alla luce delle cause economiche o finanziarie dietro la generazione o l’assorbimento di cassa. In maniera simile a quanto indicato per lo studio dell’equilibrio economico attraverso un sistema di budget, diviene cruciale per l’impresa dotarsi di strumenti di programmazione prospettica che, anche sinteticamente, riescano a proiettare l’andamento atteso in termini finanziari (forward looking).
Lo squilibrio patrimoniale si ha nel caso l’impresa presenta una struttura delle fonti di finanziamento inadeguata rispetto agli impieghi, la cui manifestazione può essere data da un eccessivo indebitamento. La situazione di squilibrio patrimoniale deteriora la solidità dell’impresa e la sua capacità di finanziarsi, ricorrendo per esempio al credito bancario. La difficoltà di ottenere finanziamenti può portare alla paralisi operativa dell’impresa, pregiudicando il rilancio strategico, specie nel caso l’intervento sia tardivo. Nuovamente le situazioni di squilibrio vanno adeguatamente monitorate, attraverso idonei strumenti elaborati dall’economia aziendale. Il budget economico dovrà avere la sua declinazione finanziaria e di flussi di cassa, nonché la rappresentazione della dimensione patrimoniale.