A 60 anni, il “villaggio globale” è in crisi. Papa Francesco avverte: “La connessione digitale non basta per gettare ponti, non è in grado di unire l’umanità”. Considerando la disinformazione e l’odio sui social, la magia della tecnologia in grado di annullare le distanze di spazio e di tempo non può più essere vista in quest’ottica utopica. Lo studioso De Kerckhove, erede di McLuhan, che per primo parlò di global village, definisce quella che stiamo attraversando: “una fase di transizione cupa come il Medioevo”. Per non soccombere al determinismo tecnologico emerge l’urgenza di un nuovo Umanesimo, possibile a patto di non rinnegare il concetto di valori condivisi e il binomio complementare di diritti e di doveri. Sembrano concetti scontati in Occidente e, invece, sono proprio questi i baluardi che stanno venendo meno. Nel suo testo pubblicato nel 1962 con il titolo “La Galassia Gutenberg: nascita dell’uomo tipografico”, Marshall McLuhan diede la definizione di villaggio globale proprio per invocare senso critico nei confronti del ruolo sempre più invasivo della tecnologia. A partire dagli anni ottanta, la società ha vissuto un continuo susseguirsi di novità. Lo studioso chiarì che “ogni tecnologia è un’estensione delle nostre facoltà che impone nuovi equilibri tra gli organi sensoriali”. Oggi è ancora più evidente come i mutamenti nel funzionamento o nelle applicazioni dei telefonini o di altri strumenti digitali influenzino, in modo determinante, lo sviluppo personale e sociale. McLuhan ci ricordava la differenza tra informazione e comunicazione, e sottolineava la distanza tra un messaggio informativo e uno pubblicitario, atto a convincere per definizione. Il primo degli aspetti critici da considerare è proprio quello della confusione che regna oggi tra informazione e comunicazione. Vale la pena ricordare che l’informazione è un insieme di dati che ha un valore per chi la riceve, in quanto è potenzialmente utile per i suoi scopi ed apporta un aumento della conoscenza. La comunicazione, invece, non è processo unidirezionale, ma è un processo relazionale, in cui due o più individui negoziano un insieme di significati condivisi. Ha entusiasmato tutti la possibilità di flussi informativi non più veicolati solo “dall’alto” ma anche dal “basso”, ma non deve mancare la consapevolezza delle conseguenze del mescolamento tra tipologie di messaggi diversi e dell’abbandono del concetto di verifica e di attendibilità delle fonti. Basti pensare che il 70 per cento dei giovani tra i 14 e i 30 anni – dati Istat – ritengano di essere informati frequentando i social media,. Peccato che in quest’ambito non c’è alcuna certezza di trovare vera informazione e dove l’accesso a un tipo o un altro di notizie è dettato dalla casualità dei contatti o da un uso strumentale delle chat da parte di chi vuole diffondere fake news. Per non perdere l’occasione di una piazza virtuale, i leader politici stessi da tempo affidano ai social comunicazioni o informazioni in modo indistinto. Non mancano giornalisti accreditati che per rincorrere il click di visualizzazione, pur conoscendo bene la deontologia professionale, si comportano come blogger improvvisati. Di fatto, solo un terzo delle persone che dichiarano di essere informate sulle tematiche politiche leggono, cartaceo o in abbonamento on line, un quotidiano. Dunque, in pochissimi accedono ai mezzi di comunicazione dove lavorano giornalisti professionisti, preparati per definizione a valutare fonti e contesti, a porsi, e porre, gli interrogativi utili per spiegare o approfondire un provvedimento, un fenomeno, un dato, per smascherare fake news. Con i moderni mass media si è moltiplicata in modo esponenziale l’offerta di informazione o pseudo informazione, ma non abbiamo cittadini più informati, e dunque più consapevoli. Sono tutti questi fenomeni che ricordano quanto la tecnologia incida sul progresso o meno dell’umanità. Inoltre, ci sono meccanismi per cui l’ultima parola spetta, e si rischia che spetti sempre di più, agli algoritmi. I motori di ricerca decidono per noi cosa sia rilevante nella conoscenza e, ultimamente, agiscono in maniera personalizzata. Di fatto, dietro a ogni ricerca c’è sempre un algoritmo che mira a soddisfare l’utente. E’ una strategia elementare: più sei compiaciuto e più rimani a navigare in quell’ambito, senza cercare quello che, invece di compiacerti, potrebbe offrirti reali termini di confronto rispetto alle convinzioni che già hai maturato. E’ immediatamente chiaro un aspetto: in questo processo manca quello che mette in moto la creatività, cioè quel fattore di diversità che ti porta fuori dai binari, dagli schemi mettendo in moto criticità e inventiva, come le grandi intuizioni imprenditoriali insegnano. Al contrario, questo meccanismo autoreferenziale amplifica le nostre preferenze e ci fa cadere nel brodo di coltura perfetto per la diffusione delle fake news, cioè le echo chamber. Letteralmente “camere dell’eco” o “casse di risonanza”. Identificano una trasmissione ripetitiva di uno stesso messaggio in un ambito chiuso al punto che un’interpretazione discorde non trova possibilità di espressione. Vengono replicati post che si autoalimentano in termini di credibilità per il fatto che grandi comunità li avvalorano e li ripostano. In sostanza, si tende a cercare conferma sulle presunte verità che sono già nel nostro orizzonte di comprensione. E’ evidente “il pullulare di forme insolite di aggressività, di insulti, maltrattamenti, offese, sferzate verbali fino a demolire la figura dell’altro, con una sfrenatezza che non potrebbe esistere nel contatto corpo a corpo perché finiremmo per distruggerci tutti a vicenda”. Lo ricorda Papa Francesco. Nella sua terza Enciclica, sottolinea che “proprio mentre difendono il proprio isolamento consumistico e comodo, le persone scelgono di legarsi in maniera costante e ossessiva” ai dispositivi mobili e ai computer, dove però “l’aggressività trova uno spazio di diffusione senza uguali”. E purtroppo la cronaca si arricchisce di episodi di tanto efferata quanto gratuita violenza, a conferma della sovrapposizione tra virtuale e reale. E c’è poi l’appello a “spiegare ed evidenziare i vincoli tra destino umano e ambiente naturale”.Dopo aver pubblicato la Laudato sì, Papa Francesco ricorda spesso che i giornalisti “possono contribuire a responsabilizzare i cittadini, i leader delle nazioni, coloro che guidano le attività sociali, gli imprenditori e i protagonisti dell’economia e della finanza, nell’ottica della conversione ecologica urgente e decisiva per la sopravvivenza”. La cosa che più di tutte mette i brividi è che non si cerca più il valore dell’oggettività, prezioso anche solo in termini di tensione verso la verità. Piuttosto, “dilaga l’io freudiano in tutta la sua soggettività”, come afferma Derrick de Kerckhove, direttore scientifico dell’Osservatorio TuttiMedia e Media Duemila, docente al Politecnico di Milano. Lo studioso a gran voce avverte: “Dobbiamo rimodellare gli strumenti prima che ci modellino a loro immagine”. E non si può tacere sul fatto che in tanta esplosione di soggettività, proliferano fake news e post-verità, che rappresentano tra l‘altro l’humus vitale per terrorismo e criminalità. De Kerckhove non ha dubbi: “Viviamo una transizione penosa, come quella medievale che portò alle guerre di religione, ma su scala globale”. Oggi, la vera guerra globale è cyber: gli attacchi informatici attentano ai dati più sensibili di una persona, ma anche di uno Stato intero e il rischio è che alcuni hacker più esperti riescano a bloccare gangli vitali di reti essenziali come quelle energetiche. Inoltre, invenzioni come i social credit servono per controllare i cittadini, del proprio Paese o di un altro. Abbiamo ragionato negli ultimi anni, con l’espressione di Samuel P. Huntington, di possibile “scontro di civiltà” tra Occidente e Oriente, ma è venuto il momento di ragionare in termini di “implosione di civiltà”, come afferma lo scrittore Amin Maalouf di fronte a evidenti manifestazioni di degrado sociale. Il punto è ricordare che si è cittadini e come tali soggetti di diritti e di doveri. All’orizzonte sembrano evidenti solo i primi. A ben guardare, tutto il mondo della comunicazione è molto più generoso nell’offerta di dibattiti sui diritti rispetto a quella relativa ai doveri. I diritti partono da istanze di singoli rivendicate magari in modo collettivo, e, a livello mediatico, il concetto di rivendicazione è sempre caro a tutti. Il dovere nasce, invece, da un concetto di limitazione: interviene secondo il vecchio adagio per cui la mia libertà finisce dove inizia la tua. E il concetto di limitazione ha molta meno fortuna mediatica. Diritti e doveri hanno senso se ci sono, come termini di riferimento, dei valori. Senza il riconoscimento del valore della libertà, non c’è il diritto di parola o di manifestazione etc. Il problema vero in Occidente è chiarirci se vogliamo arrenderci alla spinta travolgente di un relativismo che rifiuta il concetto stesso di valori condivisi. Il relativismo è il risultato di un processo culturale preciso che, attraverso la declinazione linguistica, si è imposto come critica distruttiva di un’idea di società in positivo. Non è, come si vorrebbe far credere, la vittoria della scienza sulla morale o sulla religione. E’ semplicemente un orizzonte di sconfitta. Lo ribadiva, da donna di scienza non credente, Rita Levi Montalcini, che ripeteva spesso: “Il male assoluto del nostro tempo è di non credere nei valori… la vita merita di essere vissuta solo se crediamo nei valori”.
Tutto è relativo – si sente dire – e perfino la competenza ha smesso per tanti di essere un valore. Eppure, il Covid-19 dovrebbe aver scosso il mondo da questa pseudocultura, dovrebbe aver ricordato che per curare un malato serve il medico competente, non basta il vicino della porta accanto, ma anche che, per mettere in condizione di lavorare la macchina sanitaria, è necessario un legislatore consapevole che valuti pareri competenti e non si improvvisi immunologo. Non possono mancare giornalisti preparati, capaci di rivolgere ai leader politici le domande giuste e in grado di distinguere notizie e fakenews, per svolgere il ruolo fondamentale che spetta all’informazione all’interno delle società e delle democrazie. E’ un appello che non viene soltanto dalle coscienze più accorte, ma che è emerso in modo evidente anche dai sondaggi durante la fase più critica della pandemia: su una vicenda così seria, la gente ha cercato risposte sui media tradizionali molto più che sulla rete o sui social. Anche da qui possiamo ripartire per ripensare il mondo della comunicazione troppo spesso appiattito sui vizi di questa epoca: alzare la voce per gridare più forte, semplificare per convincere piuttosto che informare, sgretolare lo spessore di ciò che ha valore, parlare solo di diritti e non abbastanza di doveri. Per combattere lo svilimento del Sapere e il determinismo digitale la via è, dunque, quella dell’assunzione di responsabilità che sono attuali e urgenti ma non nuove: rinnegare semplificazioni e banalizzazioni, recuperare la profondità dell’Umanesimo che ha fatto grande l’Occidente, proprio in virtù di valori condivisi e della complementarità tra diritti e doveri.