In un mondo in cui l’estetica e la perfezione fisica padroneggiano incontrastate, è piuttosto difficile comprendere come Lucia Annibali, avvocatessa sfigurata con l’acido il 16 aprile 2013, riesca a trovare la forza per andare avanti. L’uomo che voleva distruggerla, un collega di Pesaro che la 36enne aveva lasciato in seguito ad una relazione burrascosa, lo scorso sabato 29 marzo ha ricevuto una condanna a vent’anni di carcere. L’uomo aveva lasciato il lavoro sporco a due sicari, i cittadini albanesi Rubin Talaban e Altistin Precetaj, condannati anche loro a 14 anni di reclusione, che hanno materialmente gettato addosso alla donna 400 centilitri di acido solforico al 66%. Una sentenza esemplare, nei confronti della quale Lucia si è così espressa: “E’ un premio per chi ha lavorato a questo caso ed è giusto che chi ha commesso questo scempio sia stato punito con la pena che il giudice ha ritenuto adeguata. Ma non ho rabbia. Non nutro nessun rancore. Ora penso alla vita”. Probabilmente il mandante, Luca Varani, non avrebbe mai immaginato che quel bel volto che lui ha voluto cancellare per sempre, sarebbe diventato un simbolo, o meglio una lezione di vita nei confronti di tutte quelle donne che non riescono a vivere in assenza del trucco impeccabile, della piega perfetta o del vestito a regola d’arte. Lucia è stata insignita del titolo di Cavaliere della Repubblica dal presidente Giorgio Napolitano, ma non sarà certamente tale riconoscimento a restituirle la sua vecchia identità. E’ difficile non provare un senso di inferiorità nei confronti di una donna, punita amaramente dalla vita, che è riuscita a fare della sua disgrazia una battaglia in nome di chi potrebbe come lei essere vittima di qualsiasi tipo di violenza. La nuova Lucia irradia una forza esemplare, che ci ricorda quanto sia pericoloso mettere il proprio destino nelle mani della persona sbagliata, dalla quale non ci allontaniamo convinte che tutto sia giustificabile in nome dell’amore, tutto abbia una spiegazione. Eppure così non è, perché ogni sentimento che vale la pena di essere vissuto non può prescindere dal nostro bene, dal nostro miglioramento, dalla nostra dignità. “Esiste solo un tipo di amore: quello buono, quello che rende felice e migliore, che ti arricchisce e ti fa crescere”, ci ricorda oggi Lucia. La sua vicenda è andata tuttavia oltre la semplice testimonianza di chi è stata tradita dalla persona sbagliata: Annibale è infatti un simbolo di lotta verso l’accettazione della diversità, come lei stessa ha affermato: “Vorrei essere un aiuto per le altre donne vilipese e per tutti coloro che debbono sopportare una diversità. Il mio corpo è ancora ferito ma ci sono lacerazioni ancora più profonde, che restano dentro, dentro, dentro…Forse il coraggio è sopportare l’insopportabile. Ma già nelle ore di buio all’ospedale io parlavo con me stessa: è già un’ingiustizia enorme essere ridotta così, se cedo e mi lascio andare l’ingiustizia sarà ancora più grande”. Nelle parole di Lucia non c’è un grammo di retorica o banalità, ma piuttosto la concreta dimostrazione del fatto che spesso è possibile superare l’insuperabile, trovare una via alternativa al raggiungimento della felicità di cui qualcuno vuole privarci. Definirla semplicemente “vittima” sarebbe riduttivo. Si è rialzata a testa alta, ripudiando il concetto di sconfitta. Forse le parole più adatte per esprimere la sua grinta sono quelle presenti nel titolo di una delle più famose canzoni di Vasco Rossi, “C’è chi dice no”, no ad un’esistenza che aveva tutte le caratteristiche per definirsi infelice.
Silvia Di Pasquale