Quanto accaduto a Manduria non si esaurisce – si spera – nel solito stagno di sterili polemiche che tempestano il Bel Paese con cadenza ormai quotidiana. L’episodio terribile che vede protagonisti otto giovanissimi e un malcapitato 66enne, Antonio Stano, è e deve rimanere nel tempo un esempio che sensibilizzi sul tema delle baby gang e della violenza commessa “per noia”. Non perché si voglia tendere a tutti i costi al giustizialismo, ma perché un flagello sociale di questo genere merita una risposta istituzionale che ne freni l’entità in modo efficace.
Il caso di Manduria è gravissimo: Stano si è ritrovato a subire le violenze – di questo si tratta, non puerili angherie – di una gang, fatte di furti, percosse e pubblico scherno. A voler chiamare le cose con il loro nome, le accuse sono quelle di tortura e sequestro di persona. I risultati: la paura, l’isolamento, infine la morte. La fine del pover’uomo si sarebbe potuta evitare in qualsiasi momento, ed è proprio questo a far di più imbestialire. Sarebbe bastato che qualunque dei familiari coinvolti si accorgesse di quanto stesse accadendo per porvi una fine, ma non solo: pare, infatti, che a Manduria le “gesta” dei piccoli criminali – sei di essi sono minorenni – non siano passate inosservate. E che, anzi, questi abbiano fatto di tutto per condividere le loro azioni atroci nei modi che la tecnologia odierna consente.
Nessuno ha fatto nulla: solo un amico di Stano, ignaro della situazione, si è preoccupato per il progressivo isolamento del sodale. E si preoccupa oggi, come confida a TGCOM24, che la sua morte sia avvenuta invano, se nemmeno servirà a sensibilizzare l’opinione pubblica. L’amico di Antonio Stano non sapeva cosa stesse accadendo, ma a Manduria molti altri hanno visto e commentato i ripugnanti video in circolazione.
Un muro di omertà da un lato, la nebbia di una scarsa autorità genitoriale dall’altra. Sulle righe di Repubblica, la madre di uno degli indagati si dispera: «ho pensato sempre di essere una brava mamma, che mio figlio era straordinario. Ha sbagliato, doveva fare qualcosa che non ha fatto. Arrabbiarsi, dire agli amici di smetterla. Non è stato forte abbastanza. Ma anche noi genitori non abbiamo fatto quello che dovevamo».
Nessuno ha fatto quel che avrebbe dovuto: i ragazzi, le famiglie, la comunità che – a quanto si dice – è priva di luoghi di ritrovo per giovani e qualunque genere di attività che possa attenuare il tedio e dare un senso ai lunghi pomeriggi dei liceali. Ma la noia non è una scusante: atti di reiterata violenza su un uomo anziano e fragile sono una fattispecie che trascende l’educazione o le possibilità offerte dal tessuto sociale. Le istituzioni devono occuparsi dei giovani, fare in modo che essi non si perdano in un turbinio di degrado e adolescenza vissuta al limite, ma questo è un altro livello di cose: per la violenza non c’è nessuna giustificazione.