Dal 5 dicembre scorso, il mondo è un posto più buio. Il 5 dicembre del 2013 si è spenta una delle stelle più luminose e fulgenti della storia dell’umanità. È morto Nelson Rolihlahla Mandela, padre della nazione Sudafricana, pastore del suo popolo, speranza per tutto il mondo. Si è spento a 95 anni, un’età venerabile, ma ben 27 di quegli anni li ha trascorsi in una cella di tre metri quadrati, costretto a spaccare pietre finché l’età glielo ha concesso per la sola colpa di essere un uomo di colore, che lottava contro le ingiustizie e la segregazione che opprimeva il suo popolo. La spregevole politica dell’apartheid, che in lingua afrikaner (la lingua dei coloni olandesi) significa “separazione” era entrata in vigore nel 1948, all’indomani della conclusione del primo conflitto mondiale, ma era serpeggiata per anni all’interno del dibattito politico sudafricano, dove l’80% della popolazione era (ed è) nera o meticcia. Questo terribile abominio, appoggiato da tutta la minoranza boera, venne per molti anni definito un “rapporto di buon vicinato” ma in realtà si trattava di una serie di leggi che proibiva, tra le altre cose, l’unione tra individui di etnie diverse, considerava reato penale avere rapporti sessuali con individui di razza nera, costringeva questi ultimi a vivere in regioni lager, i bantustan, che non erano considerati territori sudafricani e i suoi abitanti, di conseguenza, non avevano la cittadinanza. Oltre a questo, una serie di provvedimenti che rendeva assai difficile l’accesso dei neri all’istruzione, li obbligava a presentare una sorta di passaporto per frequentare le zone abitate dai bianchi e, per finire, proibiva l’utilizzo delle strutture usate dalla popolazione afrikaner, come fontanelle o bagni pubblici. Il giovane Mandela, il cui secondo nome significa “colui che porta guai” nel dialetto della sua etnia, gli Xhosa, iniziò fin da giovane a ribellarsi alle imposizioni. Da ragazzo, infatti, insieme al cugino, fuggì di casa per non essere costretto a sposare, secondo la legge della sua tribù, la donna scelta per lui dal capo. Dopo la laurea in giurisprudenza e l’assistenza gratuita per i cittadini neri, entrò a far parte della lotta armata per l’abolizione dell’apartheid, ideando e attuando diverse operazioni di sabotaggio della macchina oppressiva dei bianchi, frequentando spesso diverse personalità della lotta armata di altri stati africani. Per questo e per “tradimento” fu imprigionato e condannato all’ergastolo e trascorse l’intera durata della sua prigionia sull’isola di Pollsmoor, con la convinzione di poter essere ancora decisivo per le sorti della sua nazione e del suo popolo. Così inizia la lunga battaglia non violenta, fatta di gesti di disobbedienza pacifici ed eclatanti, che lo porterà sempre di più sulle orme di un’altra straordinaria icona del XX secolo, il “Mahtma” Gandhi. In carcere, Mandela legge molti libri, di letteratura e poesia, in lingua afrikaner e inglese, imparando il gergo corrente e la grammatica di queste lingue; in particolar modo, fu fondamentale per la sua resistenza passiva e per il suo spirito un componimento poetico di William Ernest Henley, poeta inglese dell’Ottocento, dal titolo Invictus (invitto, invincibile) contenuto nella raccolta Vita e Morte, all’interno del volume Book of Verses. Particolarmente significativi gli ultimi due versi della poesia, “Io sono il padrone del mio destino; Io sono il capitano della mia anima” e così questo grande uomo, entrato in carcere come vittima della violenza, come un traditore, ne uscì vincitore pacifista, padrone del suo spirito e simbolo della fratellanza e della convivenza tra i popoli. Il giovane combattente divenne Madiba, nome assegnato ai membri anziani della sua tribù, in segno di rispetto per la saggezza e la venerabilità; quando fu arrestato non era considerato nemmeno un uomo dal suo Paese, quando fu scarcerato ne divenne il primo Presidente nero. Innumerevoli e tutti prestigiosissimi i riconoscimenti attribuitigli dalle Nazioni di quasi tutto il mondo, tra i quali il Premio Lenin per la Pace e il Premio Sakharov per la Libertà di Pensiero, quando era ancora imprigionato, oltre al Nobel per la Pace nel 1993. Gli artisti e i Capi di Stato di tutto il pianeta gli hanno reso omaggio, dai Simple Minds agli U2, fino al meraviglioso film Invictus, di Clint Eastwood, che racconta gli eventi della liberazione e del mutamento sociale in Sudafrica sullo sfondo delle vicende sportive della squadra nazionale di Rugby, gli Springbok. Ma forse la considerazione più esauriente sulla sua grandezza è anche la più semplice. Egli, infatti, ha non solo avuto la forza di resistere a 27 anni di carcerazione immotivata ma, una volta uscito, ha avuto la straordinaria volontà di perdonare chi lo aveva rinchiuso, per il bene del suo Paese, per l’unità del suo popolo e per sconfiggere l’intolleranza e il razzismo. Purtroppo, come detto, il mondo ora è un posto peggiore perché, è inutile negarlo, la vita di alcuni uomini conta molto di più di quella di altri. La speranza è che l’esempio straordinario di queste personalità possa, prima o dopo, penetrare nelle menti e nei cuori di tutti gli uomini, per guidarli e illuminarli, per renderli migliori. Dunque buon riposo Madiba, la vita e la storia sono in profondo debito con te.
Invictus
Dal profondo della notte che mi avvolge,
Nera come un pozzo da un polo all’altro,
Ringrazio qualunque dio esista
Per la mia anima invincibile.
Nella feroce morsa della circostanza
Non ho arretrato né gridato.
Sotto i colpi d’ascia della sorte
Il mio capo è sanguinante, ma non chino.
Oltre questo luogo d’ira e lacrime
Incombe il solo Orrore delle ombre,
E ancora la minaccia degli anni
Mi trova e mi troverà senza paura.
Non importa quanto stretto sia il passaggio,
Quanto piena di castighi la vita,
Io sono il padrone del mio destino;
Io sono il capitano della mia anima.
Patrizio Pitzalis