Tra le tante polemiche di questo insolito periodo della storia italiana, non sono mancate quelle sulle carceri e, in particolare, sulla condizione dei condannati per mafia e il regime del 41bis. È ormai da quasi un mese che si discute sulla concessione temporanea degli arresti domiciliari ai detenuti per evitare il contagio da coronavirus, e se questa sia stata o meno concessa – e come – anche ai boss mafiosi.
Comprensibile che lo Stato decida di concedere i domiciliari, in un momento così particolare, a chi si trova in carcere per reati minori. Dato il sovraffollamento generale dei penitenziari italiani, si rischia di travalicare in maniera imperdonabile il concetto di pena giudiziaria e sottoporre i detenuti a qualcosa che non è concepito in uno stato democratico, bensì dichiaratamente avverso ai diritti previsti dalle normative per le condizioni delle carceri.
Diverso il discorso per quanto concerne sia il 41bis, che i condannati a pene più gravi, magari sottoposti a regime di isolamento: anche in questo caso, il concetto di pena non deve tradursi in tortura, certo; va poi valutato se l’isolamento sia sufficiente a garantire la salute del detenuto, condizione non sottovalutabile per quanto riguarda la possibile concessione dei domiciliari, che può apparire forzata o esagerata, forse sostituibile con altri espedienti da attuarsi “in loco” per mantenere la salute del detenuto.
Ma non si può, in nessun caso, dire che i mafiosi “non meritino” i domiciliari per motivi di salute. Quest’ultima è un diritto che lo Stato ha il dovere di garantire a ogni cittadino, a prescindere dalla sua condizione. Certo è che, qualora sussista la possibilità di mantenere in sicurezza i detenuti per reati gravi all’interno dei penitenziari, sarebbe opportuno procedere in tal senso per evitare sconti di pena immeritati.
Questa sembra essere la ratio del nuovo procedimento pensato dal Ministero della Giustizia e dal DAP, il dipartimento amministrazione penitenziaria, che prevede il rientro in cella di – per ora – venti boss mafiosi: una lista di 376 condannati a cui erano stati concessi i domiciliari era stata diffusa da Repubblica lo scorso 5 maggio, suscitando scalpore e inviti a misure più restrittive. In realtà, tra questi, i sottoposti al 41bis erano solo tre.
Questa massiccia scarcerazione, non prevista specificamente nei testi di legge per quanto riguarda i regimi di carcere duro – come aveva già spiegato il ministro Bonafede – sarà ora “riparata” con un progressivo rientro in cella dei condannati per mafia e terrorismo, fatta salva la congrua disponibilità di posti nei centri sanitari penitenziari.
Il primo a tornare in cella è stato Antonino Sacco, boss del clan Brancaccio di Palermo. Seguono per ora diciannove nomi la cui natura è comprensibilmente riservata. Una reazione che per ora non placa la bufera scatenatasi negli ultimi giorni verso il Guardasigilli – nonostante, a dire il vero, le scarcerazioni mafiose siano state operate su iniziativa dei giudici. Questi erano stati invitati dal DAP a segnalare i detenuti a rischio COVID-19, ma senza che fosse previsto od operato un regime particolare per i detenuti più pericolosi o sottoposti a regimi particolari.
Una confusione che ha mandato in tilt le procedure, generando una brutta figura e alla quale ora si cerca di riparare, al netto degli ultimi scandali che stanno coinvolgendo un DAP ora nel mirino di stampa e opposizione. È forse anche questo un modo per tornare alla normalità?