Smartworking e smartcommunication

In un’epoca di dilagante smartworking, con il lavoro svolto da casa piuttosto che in ufficio, cosa cambia nella comunicazione con i colleghi e le colleghe, con i capi e con le cape? Cosa succede nelle normali interazioni per motivi di lavoro o nelle semplici, eppure fondamentali, relazioni umane?

Lo smartworking ha “salvato” il lavoro portandolo a casa. Così la scrivania nello studiolo, il tavolo della cucina, un angolo della sala da pranzo sono diventati la nuova postazione di lavoro. Lo schermo, il mouse, il modem, nella nuova collocazione casalinga, hanno consentito di portare avanti il lavoro bruscamente interrotto dallo scoppio della pandemia e salvo intervalli dai vari lockdown. Certo, qualche aggiustamento nei ritmi familiari c’è stato. Altrettanto certo è stato un riequilibrio nell’uso della connessione wifi fra genitori e figli/e, lavoro e scuola. Altrettanto certamente non è stato semplice trovare la concentrazione se la prole si aggira per casa, se il pensiero va alla lavatrice da avviare o all’immondizia da buttare, o quando bisogna preparare il pranzo che “santa mensa”, in genere, risolve nel “normale” quotidiano. Sicuramente si è guadagnato il tempo perso negli spostamenti casa-ufficio e viceversa. Fatto salvo il lavoro, la nuova quotidianità ha però lasciato indietro la consuetudine del caffè con il collega dell’ufficio accanto, la chiacchierata con la collega vicina di scrivania, l’ansiogena chiamata del capo o della capa nel suo ufficio (elemento non trascurabile nel mantenere alta l’adrenalina in corpo e desta l‘attenzione!), la risata di qualche collega che ha appena letto qualcosa di divertente sul suo smartphone o il dubbio di qualcuna che butta lì una domanda, confidando nel l buon cuore della platea e di chi ha la risposta ai suoi dubbi.

Tempo perso?

Insomma. Non proprio.

Il lavoro, inteso come compito da svolgere, e perfino la sede del proprio ufficio, ha anche un profilo relazionale oltre che fisico, oggettivo, contenutistico.

Nella comunicazione organizzativa – intesa come l’insieme della comunicazione istituzionale, esterna, interna e di rilevanza sociale – di una realtà lavorativa (che sia un’azienda, un Ministero, un’Istituzione) si distingue fra strumenti di comunicazione “fredda” e “calda”.

Sono elementi di comunicazione “fredda” il logo, i manifesti, i volantini, i moduli, gli strumenti di comunicazione informatica (email, sito, blog, messaggi in procedura etc), gli strumenti audiovisivi (video, sale di registrazione, radio etc), le pubblicazioni (riviste, house-organ, newsletter etc), gli organigrammi. Insomma i canali e tutto ciò che reca in sé un contenuto, un messaggio. Sono, invece, strumenti “caldi” gli scambi che implicano una relazione umana, come le riunioni, le assemblee, i convegni, i riti e le celebrazioni dove magari partecipano anche i familiari e il/la partner (propri, della colleganza, dei vertici). Per molto tempo, la letteratura manageriale ha messo in evidenza l’importanza di questi incontri per cementare le relazioni, per motivare, per coinvolgere e stimolare l’adesione del personale ai valori, alle strategie, alla mission e alla vision aziendale. “Mo-ti-va-re” è la parola-chiave per incoraggiare le persone e farle sentire parte attiva dell’azienda, Ministero, Istituzione. Per sviluppare “empowerment” e magari anche voglia di fare formazione e sentirsi bene con il proprio lavoro (o “sul posto di lavoro” quando si ha, quando si può o quando sarà). Chi non si sentirebbe parte di un’azienda o di un’istituzione che invita proprio te, con la tua vita personale e professionale, mostrando di apprezzare e valorizzare le tue competenze, il potenziale contributo di idee che puoi dare, a compartecipare a un momento comune in cui viene riconosciuto (o sancito) l’impegno verso un nuovo obiettivo, traguardo, risultato da raggiungere? Bisognerebbe essere creature dotate di un elevato tasso di cinismo e di un qualunquismo da primato olimpionico! Suvvia!

La domanda pertanto è cosa accade quando questa possibilità di coinvolgimento viene a mancare per colpa di una pandemia che, proprio sulla vicinanza delle persone, sulla quotidiana interlocuzione e sulla socialità, trova il proprio veicolo privilegiato di diffusione e di contaminazione delle vite delle persone? Si rischia che venga meno il collante emotivo e sociale del lavoro.

Si ricorre quindi ai surrogati tecnologici della comunicazione umana a distanza. Quelle piattaforme social e di web conference che rappresentano sia lo strumento di lavoro (per fare riunioni, cercare informazioni, trovare contatti o risolvere un problema informatico) sia il mezzo al quale affidare la possibilità di “vedersi” e di “parlare” fra colleghi/e. È così che piattaforme come Zoom, Meet, Slack, Team, Skype, Webex e molte altre ancora sono diventate l’occhio, la voce e la “mascherina di vetro” attraverso i quali entrare in contatto con gli altri e le altre. Per ripristinare quel minimo di socialità interrotta. Fino a qualche anno fa, ricorderete, aveva fatto notizia il caso di un o una dipendente che era stato/a licenziato/a, perché “colto sul fatto” a navigare su Facebook durante l’orario d’ufficio, sottraendo tempo (pagato) al lavoro.

“Era così” o “è così” anche oggi?

Si può adoperare lo stesso parametro in epoca di Covid-19?

Forse occorrerebbe analizzare la situazione, proprio in considerazione della forzosa e forzata “socialità limitata”. Anche in ufficio.

Certo, la tecnologia aiuta, ma non è la panacea e non è sostitutiva dell’interazione diretta fra due o più persone. Manca la potenza dello sguardo, l’espressione facciale, il tono e il ritmo di una conversazione a quattrocchi, la prossemica e l’occupazione dello spazio che molto dicono sulla tipologia e sull’andamento di una relazione fra due parlanti. Questi elementi, comunemente distinti in, verbale, paraverbale e non verbale, svolgono un ruolo importante nella comunicazione. Perfino al di là della volontà cosciente delle persone. A volte dicono più di quanto una persona vorrebbe dire o vorrebbe che trasparisse.

C’è anche chi ha ponderato questi elementi assegnandogli un “peso” nella normale comunicazione. Il prof. Albert Mehrabian, psicologo statunitense, ha precisato (siamo negli Anni ’60) che ad avere il ruolo maggiore è la comunicazione non verbale (55%), seguita dalla comunicazione paraverbale (38%) e, in fine, dalla parola (7%). Le piattaforme web, dunque, aiutano, ma non sono in grado di sostituire pienamente una normale e “naturale” interlocuzione, in presenza, fra due o più persone.

L’Ordine degli Psicologi del Lazio, e lo stesso Ministro della Sanità, hanno rilevato recentemente che in epoca di pandemia, sono aumentati i disagi emotivi delle persone. Ansia, depressione, crisi di panico, mettono a dura prova le risorse di coping e la capacità di risposta delle persone. Vi è inoltre una progressiva diffusione dell’incapacità di verbalizzare il proprio disagio o di riconoscerlo. Da qui la crescente rabbia e aggressività, unite a paura e a senso di precarietà esistenziale. Di isolamento dal contesto.

Oltre alla pandemia, vista sotto l’aspetto medico, occorre pertanto prestare attenzione a quei segnali di disagio che emergono, anche, dalla rarefazione dei rapporti interpersonali diretti e/o dal loro essere veicolati da canali indiretti che trasportano solo una parte di quel “messaggio” che ognuno/a di noi invia quando comunica con un’altra persona.

Ricordatelo dopo aver letto questo articolo: condividetelo, coinvolgete, parlatene (magari de visu, quando possibile) per fare “smartcommunication”. Fa bene alla mente, all’umore e alla salute propria e delle relazioni.

Per chi volesse approfondire, consiglio il libro di Galliano Cocco “La comunicazione interna, da Maslow al Covid-19”, Franco Angeli, 2020.

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