Un’affermazione, quella proposta nel titolo, che porta con sé un valore simbolico tutt’altro che indifferente. E che soprattutto si pone a confronto, per forza di cose, con ogni elemento storico di rilievo dal Settecento a oggi. Con Lincoln, Roosevelt, Kennedy e con situazioni dove l’importanza politica e sociale per gli Stati Uniti e per il mondo intero era forse ben più drammatica che oggi.
Lo scontro personale fra Trump e Biden, con ogni probabilità, non merita un simile paragone. Ma le presenti elezioni, che decreteranno il proprio vincitore il prossimo 3 novembre, sono d’estrema importanza per un altro motivo: in gioco è la tenuta della stessa democrazia statunitense, considerata la più antica del mondo tra quelle di stampo moderno.
La costituzione è un punto focale del confronto: la stessa costituzione che, per sistema di voto, vide nel 2016 vincere Donald Trump nonostante Hillary Clinton avesse ottenuto un maggior numero assoluto di voti. E la stessa costituzione che oggi sembra impotente nel rilevare e fermare i tentativi di stravolgerla. E ciò, nonostante gli stessi meccanismi di autodifesa che essa prevede, ma che oggi risultano paradossalmente anacronistici e più favorevoli agli intenti di chi, il diritto democratico, vuole limitarlo – basti pensare al secondo emendamento, quello che consente di avere armi, la cui ratio consisteva nella libertà di ribellione a un governo divenuto dittatoriale, e che oggi risulta invece uno degli strumenti più difesi dal conservatorismo e dal fanatismo socio-politico d’oltreoceano.
Quattro anni di Donald Trump hanno avuto un peso non indifferente per gli Stati Uniti e per il mondo intero, unitamente a contingenze esogene inaspettate come la pandemia da COVID-19, ma anche fattori endogeni ampiamente pronosticabili come il malcontento afroamericano, la crescente diseguaglianza socio-economica, l’intolleranza a sfondo razzista, un capitalismo a stelle e strisce che non sembra più sistema condiviso come un tempo.
L’America è una polveriera pronta a esplodere già a partire dal 4 di novembre. Molte sono le preoccupazioni per le proteste dall’una e dall’altra parte, e per l’entità predominante che esse potrebbero assumere: non solo i neri, la cui difficile situazione continua a restare pressoché invariata in termini di rappresentanza socio-politica nonostante le violente proteste di giugno. Bensì anche il suprematismo bianco, con il quale sono documentati i contatti e il supporto dello stesso Trump, in particolare con il gruppo dei cosiddetti “Proud Boys”, pronti a intervenire per creare disordine nel momento in cui le elezioni non producano un risultato sperato. Con preoccupazione di tutti, e forse anche nel partito repubblicano stesso.
Insomma: qualunque sia il risultato elettorale, la discussione non terminerà il 3 novembre ed è lecito pensare che possa tradursi in fortissimi disordini di ordine pubblico. Joe Biden, un uomo bianco e anziano, non è il candidato da breakthrough che possa polarizzare il dibattito nello stesso modo in cui lo fa Trump, tranquillizzare le masse o controllarle. Anche se, in un certo senso, è proprio il moderato di cui gli Usa hanno bisogno in questo momento, dopo quattro anni di follia. Biden, che pare in leggero vantaggio – sebbene tutti abbiano imparato a non fidarsi più dei sondaggi di opinione – qualora vincesse non potrà limitarsi a “fare il Presidente” come gli altri prima di lui. Gli Stati Uniti, adesso, hanno bisogno di una stagione di riforme ampia e inedita, di come non se ne vede dai tempi del New Deal di Roosevelt.
Didascalie foto:
- Proteste del movimento Black Lives Matter a Los Angeles, dopo l’uccisione di George Floyd. (Mike Von)
- Donald Trump con mascherina e slogan in un’elaborazione grafica. (Visuals)