Allen e la sua sommessa malinconia
Al vedere un bel tramonto di solito ci si commuove. Se piove, si rischia proprio di essere tirsti.
«A rainy day in New York», ultima fatica del maestro Woodey Allen è per certi versi un film di genere per quanto è d’autore (e di quell’autore). Una trama classica e stilizzata e uno stile nei dialoghi e nella regia un po’ sottotono sono le basi per l’emergere di personaggi non sempre riusciti, tra cui spicca il giovane Gatsby (nome non casuale), impersonato da Timotheé Chalamet.
Risalta la scelta del giovane attore per l’interpretazione di quella che è in fondo la controfigura dello stesso Allen. Sorprende cioè l’estraniante anacronismo del suo ruolo (un giovane oggi parla e pensa così? …e si chiama Gatsby?). Quello che colpisce è la riproposizione, in forma meno comica, di una classica commedia alleniana, ma con la sostituzione del protagonista: invece di Allen, un attore adolescente. Un semplice aggiornamento? Un tentativo di ringiovanimento? Una fuga dal presente verso un passato di giovinezza, o anche una riflessione sulla propria identità?
Forse il regista newyorkese non ripete solo malinconicamente e sottotono qualche suo vecchio numero. Magari, alla ricerca di una originaria innocenza, vuole ripercorrere quelle strade che tanto ha amato sotto una pioggia «perfetta», in linea con il suo stato d’animo disincantato, assumendo le sembianze di un giovane universitario scapestrato, indeciso, destinato a tornare a New York.