Quando si parla di violenza sulle donne è molto facile scadere nella retorica banale. Teoricamente, tutti sono contrari. Eppure, quando si scende nella “pratica” dei singoli casi, il numero di coloro che tende a giustificare i carnefici e a colpevolizzare le vittime sale esponenzialmente. Film, libri, programmi tv trattano l’argomento, ma spesso della violenza si mostrano solo i racconti, il contorno a cose fatte, le lacrime della donna stuprata e i pettegolezzi della società. I racconti sono ormai stereotipati e tendono più a portare a termine un tentativo di lavaggio delle coscienze che a compiere una vera opera di sensibilizzazione al tema, ormai tanto di “moda”. Non è quello che accade con “Il giorno più bello”, cortometraggio diretto da Valter D’Errico, scritto a quattro mani con Alessandra Sasha Carlesi e prodotto da Jo Champa.
Nessuna mitizzazione di una donna-angelo, vittima prima ancora di essere toccata. La protagonista del cortometraggio è Sonia, una donna di umili origini che aspetta il grande amore. Ha un marcato accento calabrese, si intuisce sia un’estetista e abbia conosciuto un ragazzo ricco e bello in chat. Si sta preparando per il primo vero appuntamento e la sua ingenuità è (volutamente) al limite del ridicolo. Nessuna prima della classe capitata in un brutto giro per caso. Sonia viene addirittura mostrata in una scena mentre si rade le gambe, come qualunque donna farebbe prima di un appuntamento galante ma si vergogna di confessarlo. È una donna di cui vengono mostrati i difetti, insieme alle tante fragilità. Una donna comemolte, che sogna l’uomo giusto e che non è per nulla abituata alle piccole gentilezze quotidiane. È come ipnotizzata da Stefano (interpretato dal bravo Gianclaudio Caretta), che le porta i fiori, le apre lo sportello dell’auto e la invita a cena in un posto rinomato, quasi fosse in una favola. D’altronde è “principessa” che lui la chiama ed è così che lei vorrebbe sentirsi, mentre è abituata a pensare a se stessa sempre come una gara al ribasso. Tutta la sua insicurezza viene fuori in un dubbio, in un “Mi hai portata qui perché ti vergogni di me?” che rivolge a Stefano tra un brindisi e l’altro. A bruciapelo, mentre si stava divertendo. Un lampo di tristezza le attraversa lo sguardo, come se improvvisamente volesse richiamare se stessa alla realtà: lui è troppo per lei, se sono lì insieme qualcosa non va. Ma lui l’ha scelta e vuole che lei lo sappia. Perché è questo tipo di conferma che lei cerca. Le dice che è bella, la fa ballare, la fa ridere, la bacia appassionatamente.
Nessun sottinteso. La passeggiata sulla spiaggia a cui lui la invita dopo cena si rivela una trappola. Sonia finisce in una casa dove in tre, Stefano, il proprietario del ristorante dove hanno cenato e un altro loro “amico”, abusano di lei. Ciò che normalmente viene lasciato all’immaginazione dello spettatore, qui viene mostrato. La forza bruta, la violenza carnale e, soprattutto, l’umiliazione, completata da sputi e insulti. No, chi violenta non tratta la donna come un oggetto, qualcosa di inanimato. Pretende che tutta l’umanità di lei sia ben presente ma sottomessa, perché è di questo che gode: nell’avere il sopravvento, nel potere di soggiogare. Ecco cosa accade quando una donna viene violentate. Forse, a furia di leggere i titoli e scatenarsi nel dibattito contro le vittime, sfugge alla reale comprensione in cosa consista materialmente una violenza, di cui brutali e non richieste penetrazioni sono, addirittura, “soltanto” una parte del tutto. Più si guarda la scena del corto e più viene voglia di spaccare lo schermo. Bersaglio centrato, D’Errico.
Nessuna redenzione. Alla fine di tutto, Sonia viene scaricata come un sacco di rifiuti dal suo ricco accompagnatore, in un posto dove normalmente le prostitute aspettano i clienti. Sarà una di loro a soccorrerla. Saranno una paramedico e un’ispettrice di polizia a convincerla a denunciare.
Nessuna giustizia. I tre stupratori di Sonia, sette lunghi anni dopo, vengono assolti. Non è stata drogata, è andata da sola con il primo dei tre sulla spiaggia e nella casa, dunque viene considerata consenziente. Perché alle donne, ancora oggi, è negata una sessualità sincera: aver voglia di fare l’amore con un uomo significa essere disposta a subire qualunque cosa da chiunque. O ti rifiuti e subito, e allora (forse) sei una “brava ragazza”, oppure, se accetti, è perché ti va bene tutto e di tutto, quindi te la sei cercata. E, in fondo, ti è pure piaciuto, perché le figliole timorate non mettono la minigonna, non laccano le unghie di rosso, non escono con qualcuno che non conoscono. E le sentenze rispecchiano il pensiero comune.
Nessuna ricompensa, ma…
Sonia è sola, triste e deve fare i conti con qualcosa che l’ha segnata tutta la vita. Di quel giorno le resta un segno tangibile ogni momento con sé: un figlio. Che poteva non tenere, ma ha scelto di far nascere, perché almeno qualcosa di bello potesse venir fuori da quel terribile evento. “Il giorno più bello” è la nascita di quel bambino che, immaginiamo, non saprà mai la verità. Una scelta personale, vera proprio come Sonia appare sempre, che non ha affatto le sembianze di una condanna verso chi avrebbe agito diversamente da lei e che vuole ricordare una cosa che, spesso, non solo passa in secondo piano ma viene anche criticata: una vittima di violenza non è e non deve essere sempre considerata solo una vittima. Ha il dovere innanzitutto verso se stessa, di tornare a sorridere.
“Il giorno più bello” è sinceramente brutale, e per questo non sta passando inosservato. Alle appena concluse premiazioni del Festival Internazionale di Film Corti “Tulipani di Seta Nera” – una manifestazione promossa da Paola Tassone e diretta da Diego Righini che ha nella valorizzazione della diversità e nell’attenzione al sociale la sua mission – è giunto tra i 12 finalisti ed è stato segnalato da Rai Channel. ». Uno degli speciali premi “Sorriso Diverso” è andato al giovanissimo interprete del figlio di Sonia, il piccolo Mario Sinisgalli. Ma a Caterina Milicchio, interprete di Sonia, è stato conferito il Premio Miglior Attrice “Monica Scattini”, e la motivazione principale scelta dalla giuria ha riguardato l’elevato coinvolgimento emotivo che l’attrice è stata capace di rendere con la sua interpretazione. Un premio che Milicchio non ha perso l’occasione di dedicare, con il cuore, «a voi, vittime di brutale e indicibile violenza, affinché con coraggio possiate trovare la forza di denunciare, reagire e continuare a vivere a testa alta una vita che vuole ancora vedervi sorridere». Ci sentiamo di aggiungere, a tutte le donne che corrono ogni giorno un rischio simile solo per il fatto di essere nate tali.
Per guardare il cortometraggio, http://www.tulipanidisetanera.rai.it/dl/portali/site/articolo/ContentItem-08a207fe-db7a-45ed-87cd-7f939253df5e.html