Come già scritto per questa testata, in America il cinema politico ha tutt’altro tipo di approccio rispetto al vecchio continente e ancor di più rispetto al cinema italiano. L’atmosfera, le finalità, il tono sono diversi. Anzi, a ben vedere, il genere sembra del tutto scomparso nel nostro paese.
Non così nell’America di Trump, in cui si registra un ritorno delle opere esplicitamente “di parte”, impegnate e schierate. E questo non solo nell’opera di un autore come Michael Moore, vero e proprio attivista politico, ma anche nelle ultime due fatiche di Adam McKay, regista di genere specializzato in commedie e popcorn-movie.
La carriera di McKay è emblematica: artigiano del cinema inscrivibile quasi esclusivamente al genere demenziale (si ricordino soltanto la saga di Anchorman e Poliziotti di riserva), dopo più di un decennio di umorismo selvaggio e di non-sense esplosivo alla Will Farrell (suo attore feticcio), dopo qualche incursione nel mondo dei blockbuster di azione (Hansel & Gretel. Cacciatori di streghe e Ant man), nel 2015 McKay firma La grande scommessa. Un film in cui il tono dissacrante è rivolto alla realtà economica recente, alla crisi del 2008 e ai suoi protagonisti. Oggi è il turno della politica. Vice. L’uomo nell’ombra asciuga ancora di più i toni sfiorando quasi il bio-pic, e tratta della vita di Dick Cheney, “eminenza grigia” della politica americana degli ultimi trent’anni. McKay sembra voler evidenziare ora una paradossale convergenza: non è tanto il suo stile farsesco a diventare realistico, ma la realtà a rivelarsi una farsa. Come in La grande scommessa la crisi finanziaria era esplosa per pura avidità e stupidità, così in una scena di Vice la guerra in Iraq è decisa a cena, mentre si sceglie sul menu quale leggere infrangere. Vita e commedia si mischiano, in un risultato grottesco e straniante, che disorienta lo spettatore anche a costo di perdere in efficacia narrativa (è un film biografico, un documentario o semplicemente satira?). Verso la fine del film, si ha l’impressione che possa accadere di tutto da un momento all’altro, un infarto del protagonista (spesso comicamente annunciati da Cheney stesso) o un’invasione di un paese straniero.
Gli ultimi manifesti politici di Moore hanno attaccato serialmente Bush, Trump e tutto l’establishment americano schierandosi politicamente dalla parte delle fasce popolari e della democrazia. McKay per certi versi è più radicale: il nemico politico non è un tiranno (come dice Moore), ma è essenzialmente un assurdo, è espressione del fondamentale non-senso che si nasconde dietro le azioni umane. Qui si scorge una strana continuità nell’opera del regista di commedie. Il Cheney di Mc Kay è uno scaltro genio del male, che sa escogitare qualsiasi mezzo per ottenere i più diversi obiettivi, eppure non ha un vero obiettivo. Emblematica la scena in cui chiede al suo superiore, interpretato non a caso dal comico Steve Carrell, “noi per cosa siamo? In cosa crediamo?”. La risposta è una sonora e lunga risata, che continua dietro la porta sbattuta in faccia al giovane Cheney. Questo sembra voler mostrare il regista maestro del demenziale. Dietro la grande storia e il trionfalismo della politica di potenza, dietro la logica del potere per il potere, si nasconde il vuoto, l’assenza di scopi, espressa con un ghigno grottesco, surreale, disumano.