Cleto Luzzi (1884 – 1952) Un pittore romano alla corte del Re del Siam

Cleto Luzzi appartiene a quella ancora oggi nutrita categoria di artisti vissuti tra Otto e Novecento caduti nell’oblio e dimenticati dalla critica. Tale assunto appare per certi versi paradossale se si considera che, durante la sua carriera, Luzzi non solo riuscì a guadagnarsi importanti commissioni e riconoscimenti ma, dal 1929 al 1932, ebbe il privilegio di diventare pittore ufficiale del Re del Siam.

Formatosi a diretto contatto con la cultura accademica tardo ottocentesca, Luzzi studiò all’Istituto di Belle Arti di Roma sotto la guida di due maestri d’eccezione: Francesco Jacovacci e Giulio Aristide Sartorio. Dal primo recepì una certa indulgenza verso il bozzettismo, ben visibile, ad esempio, nei giovanili dipinti e acquerelli “di genere” ambientati nel Settecento più lezioso e rococò. Da Sartorio, invece, apprese le tecniche necessarie per la corretta esecuzione dell’arte decorativa monumentale, settore questo che Luzzi frequentò spesso e con notevole successo. Specializzatosi presto nella decorazione di edifici di culto della Capitale, nel 1914 affrescò la chiesa di San Nicola de’ Prefetti adottando un corretto, ma poco originale, classicismo. Con la stessa impostazione realizzò poi numerose pale d’altare (ad esempio in San Claudio, in San Giuseppe a Capo le Case, nella chiesa di Santa Maria Margherita Alacoque, presso Sant’Eusebio e, ancora, nella cappella del Preziosissimo Sangue al Verano dove nel 1940 dipinse la Via Crucis).

Un evidente cambio di registro appare invece nelle tele eseguite in Oriente (Siam, Cambogia, India, Indocina, Birmania). Una volta trasferito a Bangkok con la carica di direttore della Reale accademia di Belle Arti e di pittore di corte (1929), Luzzi sembrò come aprirsi alle sperimentazioni. Il tono tradizionalista e oleografico delle opere realizzate in patria cedette infatti il passo ad un linguaggio più libero, costruito su ricercati cromatismi e su agili pennellate rese alla maniera divisionista. Con un approccio a volte molto personale, a volte stereotipizzato sui canoni dell’orientalismo, Luzzi dipinse templi, monumenti locali, affascinanti visioni naturalistiche e anche esotiche “istantanee” di vita quotidiana. Se in India non rinunciò a ritrarre un disinvolto incantatore di serpenti, in Cambogia fu attratto dalle rovine di Angkor Wat e, con lirismo e sensibilità coloristica, realizzò una suggestiva veduta del complesso di templi al tramonto. La luce d’oriente, certamente, ebbe un ruolo cruciale per l’apertura di Luzzi a un naturalismo più intimo e ricercato; tuttavia, i dati formali del citato quadro Angkor Wat (1930), fanno intendere quanto l’artista già a Roma dovette aver meditato sulla pittura di paesaggio ad esempio di Enrico Coleman e del suo maestro Sartorio.

Benché dotato di un notevole talento, Cleto Luzzi fu presto, ingiustamente, dimenticato. Dopo la sua scomparsa, una serie di mostre retrospettive (organizzate nel 1956 presso il Palazzo delle Esposizioni di Roma e il Collegio Nazareno, nel 1958 presso il Circolo di Forestieri di Sorrento) non bastarono a mantenere in auge il nome del pittore.

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