LA BANALITA’ DEL MALE di Hannah Arendt riduzione e adattamento di Paola Bigatto e Anna Gualdo con Anna Gualdo dal 23 al 26 febbraio TEATRO BELLI-ROMA

LA BANALITA’ DEL MALE

di Hannah Arendt

riduzione e adattamento di Paola Bigatto e Anna Gualdo

con Anna Gualdo

dal 23 al 26 febbraio

TEATRO BELLI-ROMA

Dal 23 al 26 febbraio va in scena al Teatro Belli LA BANALITA’ DEL MALE di Hannah Arendt con Anna Gualdo.

Hannah Arendt (1906 – 1975), filosofa, allieva di Heidegger e Jaspers, emigrata nel 1933 dalla Germania alla Francia, e da qui in America nel 1940, a causa delle persecuzioni razziali, dal 1941 ha insegnato nelle più prestigiose università americane, pubblicando alcuni tra i più importanti testi del Novecento sul rapporto tra etica e politica. Nel 1961 segue, come inviata del The New Yorker, il processo Eichmann a Gerusalemme: il resoconto esce prima sulle colonne del giornale nel 1963, quindi, sempre nello stesso anno, in volume. Esso susciterà una grande ondata di proteste e una accesa polemica soprattutto da parte della comunità ebraica internazionale, a causa della particolare lettura che la Arendt, ebrea e tedesca, dà al fenomeno dell’Olocausto e dell’antisemitismo in Germania. Otto Adolf Eichmann (1906 – 1962) fu colui che, nei quadri organizzativi della Germania hitleriana, ebbe il ruolo di realizzare logisticamente la “soluzione finale”, cioè lo sterminio degli ebrei al fine di rendere i territori tedeschi judenrein. Sfuggito al processo di Norimberga, rifugiato in Argentina, venne catturato dal servizio segreto israeliano, processato a Gerusalemme e condannato a morte. Hannah Arendt osserva la macchina della giustizia di Israele con implacabile occhio critico. Non esita, ebrea, a indagare le responsabilità morali e dirette del popolo ebraico nella tragedia dell’Olocausto, né ad attribuire a tutto il popolo tedesco pesanti responsabilità durante il Nazismo e ipocriti sensi di colpa durante la ricostruzione post- bellica. Scopre che è la menzogna eletta a sistema di vita sociale e politica la principale artefice delle tragedie naziste, la menzogna come strategia esistenziale attuata prima di tutto nei confronti di se stessi: la capacità di negarsi delle verità conosciute è il meccanismo criminale che porta il male ad apparire banale, inconsapevolmente agito da personaggi che, come Eichmann, si dichiarano sinceramente stupefatti dell’attribuzione di questa responsabilità. Il male estremo, l’abominio criminale contro l’uomo rappresentato dal Nazismo non resta tranquillamente relegato nei responsabili noti dei massacri e dell’organizzazione, ma appare come una realtà sempre presente, in agguato nella pigrizia mentale, nell’inattività sociale e politica, nel delegare le scelte di vita ad altri da noi, nell’usare la banalità e la mediocrità come alibi morali. Coloro che sono sfuggiti a questo meccanismo dimostrano, con la loro vita, il loro esempio e spesso il loro sacrificio, che quella capacità di giudizio che ci esime dal commettere il male, non deriva da una particolare cultura, bensì dalla capacità di pensare.

E dove questa capacità è assente, là si trova la “banalità del male”.

La forza del testo risiede quindi non solo nei contenuti storici e filosofici a cui si fa riferimento (la nascita del Nazismo, le modalità dell’Olocausto, il processo di Norimberga), ma soprattutto nell’esempio morale offerto dalla Arendt osservatrice: un modello di equilibrio, di implacabilità nell’essere dolorosamente oggettiva e nel  sottolineare duramente le verità taciute da entrambe le parti processuali. Né il suo essere ebrea, né il suo essere tedesca, né il trovarsi di fronte a uno degli assassini di sei milioni di persone, altera la sua ricerca della verità e il suo sforzo di essere oggettiva. È per questo che oggi, quando il grande potere dell’informazione pretende di rifare gli accadimenti, di determinarne la realtà, quando la menzogna intellettuale sembra prevalere nella comunicazione umana e lo spirito critico dei più sembra acquietarsi nella “confortante coerenza delle ideologie”, il passionale e lucido sguardo della Arendt rappresenta una lezione di estrema attualità.

Lo spettacolo nasce come costola di un progetto più ampio, “Arendt al plurale”, voluto e immaginato da Paola Bigatto, nel quale le attrici Anna Gualdo e Sandra Cavallini, attraverso un personale percorso drammaturgico, hanno dato vita a differenti riedizioni del testo.

La direzione seguita da Anna Gualdo, è centrata sulla personalità di Eichmann, un omino piccolo piccolo preso a paradigma di un sistema, sulla relazione tra la sua incapacità di pensare e la mancanza di percezione delle proprie responsabilità.

In particolare la Gualdo, seguendo la Arendt, rintraccia nello strumento linguistico la possibilità di mentire a se stessi, manipolando il linguaggio, o difendendosi dallo scomodo pensare attraverso frasi fatte e slogan.

Lo spettacolo, nato per i banchi di scuola, come una lezione frontale tra professoressa e alunni, si sofferma sul personaggio Eichmann e la sua vita, perché attraverso i particolari e i dettagli, meglio si colgono i parallelismi e le similitudini tra i regimi totalitari e la situazione attuale, dove la deresponsabilizzazione dell’individuo, in nome della patria e dell’ideale, è molto simile alla capacità straniante della rete e dei social oggi. La povertà del linguaggio e l’uso di “parole alate” ricordano purtroppo l’abisso di Twitter e di slogan politici e la Arendt si scaglia contro la velocità di smemorizzazione, pericolosamente vicina al negazionismo, per la necessità di un racconto inteso come memoria storica, perchè “ i vuoti di memoria non esistono: qualcuno resterà sempre in vita per raccontare.”

Related Posts

di
Previous Post Next Post

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

0 shares