Le stanze delle muse

untitledNota a livello internazionale, la raccolta Molinari Pradelli è la più significativa formatasi a Bologna nel Novecento e si segnala, oltre che per la consistenza delle opere e la selezionata qualità, per la specifica connotazione conferitale dal gusto raffinato del celebre direttore d’orchestra Francesco Molinari Pradelli (1911-1996) attraverso i numerosi viaggi e le relazioni internazionali sull’onda del successo della professione.

Con una mostra di cento dipinti della raffinata collezione la Galleria degli Uffizi vuole rendere ‘omaggio alla grande personalità del maestro, direttore d’orchestra di fama e d’attività mondiali, che ebbe con Firenze un lungo e fruttuoso rapporto grazie alla sua presenza nel Teatro allora Comunale e nei programmi del Maggio Musicale Fiorentino’ (Cistina Acidini).

Francesco Molinari Pradelli nacque a Bologna nel 1911 e frequentò il Liceo musicale “Gian Battista Martini” sotto la guida di Filippo Ivaldi per il pianoforte e di Cesare Nordio per la direzione d’orchestra. Completò la propria formazione musicale a Roma, dove, già alle prime esibizioni, la stampa lo definì, nel 1938, “direttore di sicuro avvenire” mentre Arturo Toscanini lo segnalò come giovane che “ha del talento e farà carriera”. A Roma si distinse nella direzione di concerti avendo come solisti Arturo Benedetti Michelangeli e Wilhelm Kempff. Negli anni Quaranta comparve sulle scene a Milano, Pesaro, Trieste, Bologna e Firenze dirigendo in particolare pezzi di Mozart, Beethoven, Brahms, Wagner. Ebbe inizio, con la tournée ungherese del 1949, il successo internazionale che lo portò sul podio dei principali teatri europei e americani con un repertorio di trentatre concerti e di ventotto realizzazioni operistiche, dal 1938 al 1982. Tra le affermazioni più lusinghiere si ricordano gli spettacoli dell’Arena di Verona: il Guglielmo Tell di Rossini (1965), la Norma di Bellini con la Montserrat Caballé (1974), replicata a Mosca, e inoltre la Carmen di Bizet nel 1961 con cantanti d’eccezione e la Turandot di Puccini in uno spettacolo del 1969 che vide il debutto di Plácido Domingo. Non si possono tralasciare le sei stagioni consecutive all’Opera di Vienna e soprattutto i grandi successi nei teatri americani, dapprima a San Francisco poi, dal 1966, al Metropolitan di New York. Assidua fu la sua presenza a Firenze per oltre trent’anni, a partire dal 1942, come direttore dell’orchestra del Teatro Comunale con una decina di concerti sinfonici di sicuro successo nei quali ricorrenti furono i nomi di Beethoven, Rossini, Brahms, Caikovskij, Wagner. Risale alla stagione 1964-65 la direzione dell’opera verdiana Forza del destino, da tempo nel suo repertorio, mentre data al 1967 il debutto lirico al Maggio Musicale Fiorentino con il moderno recupero di Maria Stuarda di Donizetti, cui seguirono la direzione della Carmen (1968) e Lohengrin (1971).

 

A partire dagli anni Cinquanta il maestro coltivò una crescente passione per la pittura raccogliendo dapprima dipinti dell’Ottocento, quindi rivolgendosi alla pittura barocca spinto da un’attrazione del tutto originale verso il genere della natura morta i cui studi erano allora alle origini, con un’ottica che univa al piacere del possesso e all’apprezzamento estetico il desiderio di conoscenza, sollecitato dalle visite ai musei e alle mostre nelle città in cui la carriera professionale lo portava (ne sono testimonianza la quantità di libri e riviste specialistiche presenti nell’abitazione, le fotografie, gli appunti delle ricerche storico-artistiche condotte con la consultazione delle fonti storiografiche, la fitta corrispondenza epistolare e le relazioni con gli storici dell’arte, da Roberto Longhi a Federico Zeri, da Francesco Arcangeli a Carlo Volpe, da Ferdinando Bologna a Marcel Roethlinsberger, da Erich Schleier a Giuliano Briganti e a Mina Gregori.).

‘La sua predilezione per le “nature morte” in un tempo in cui non erano tanti i loro estimatori (lo sarebbero invece diventati dopo) offre il primo spunto di riflessione sull’indipendenza di giudizio di Molinari Pradelli. Lui, ch’era maestro internazionalmente celebrato, dimostra, scegliendo un genere di pittura poco ambìto, di non fondare le sue scelte d’amatore d’arte sui pareri degli storici e dei critici, né tanto meno di tener conto dell’onda delle mode. Come fa ogni collezionista culturalmente elegante, si disinteressava delle convenzioni. Non attribuendo ai quadri,  poi, valore d’investimento, non si curava di quello che piaceva agli altri, ma cercava di far suo ciò che piaceva a lui; e non rincorreva i nomi eccellenti (che difatti nella raccolta non si troveranno). L’aspirazione di lui era quella d’acquisire opere che gli fossero consentanee. N’è venuta una collezione ch’è lo specchio veridico della sua disposizione ideologica, per nulla incline al conformismo’ (Antonio Natali).

 

La collezione di circa duecento quadri che nel corso del tempo rivestirono le pareti della residenza bolognese e quindi della villa a Marano di Castenaso è stata ammirata dai maggiori storici dell’arte del Novecento, europei e americani. Come la mostra documenta, attraverso la selezione di cento dipinti, il maestro privilegiò rigorosamente la pittura del Seicento e del Settecento documentando le diverse scuole italiane, senza eccezione, con specifica attenzione ai bozzetti e ai modelletti. E se prevalenti sono i dipinti di figura della scuola emiliana – con opere di Pietro Faccini, Mastelletta, Guido Cagnacci, Marcantonio Franceschini e soprattutto i fratelli Gandolfi – e di quella napoletana – con dipinti di Luca Giordano, Micco Spadaro, Francesco De Mura, Lorenzo De Caro etc. -, non mancano capolavori di artisti veneti – Palma il Giovane, Alessandro Turchi, Sebastiano Ricci, Giovanni Battista Pittoni -, di artisti liguri e lombardi – Bernardo Strozzi, Bartolomeo Biscaino, Giulio Cesare Procaccini, Carlo Francesco Nuvolone, fra Galgario, Giuseppe Bazzani – e di artisti romani quali Gaspard Dughet, Pier Francesco Mola, Lazzaro Baldi, Paolo Monaldi.

A conferire alla collezione, molto precocemente, una notorietà internazionale furono tuttavia proprio i numerosi dipinti di natura morta di artisti come Jacopo da Empoli, Luca Forte, Giuseppe Recco, Cristoforo Munari, Arcangelo Resani, Carlo Magini, segno di un intuito fuori dal comune che fece del noto direttore d’orchestra un autentico conoscitore della pittura barocca italiana, antesignano dei moderni studi sulla natura morta.

La mostra, a cura di Angelo Mazza come il catalogo edito da Giunti , è promossa dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo con la Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Toscana, la Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze, la Galleria degli Uffizi, Firenze Musei e l’Ente Cassa di Risparmio di Firenze.

Ad arricchire la mostra è una sezione cinematografica, a cura del regista Pupi Avati – con la collaborazione di Armando Chianese  – che evoca la Bologna del tempo del grande maestro e collezionista, che Avati ricorda di aver incontrato nella sua infanzia in più occasioni e con emozione poiché suo padre Angelo Avati era rinomato antiquario e collezionista d’arte in città.

 

 

 

 

Le stanze delle muse

Dipinti barocchi dalle collezioni di Francesco Molinari Pradelli

 

Galleria degli Uffizi

 

11 febbraio – 11 maggio 2014

 

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