“Quello che non uccide fortifica”, dicono. In verità, pensiamo, “quello che non fortifica uccide”. Le esperienze traumatiche sono tappe fondamentali del nostro percorso, guide affidabili e puntualmente aggiornate che ci suggeriscono le direzioni da prendere per raggiungere le mete prefissate, gli eventuali pericoli e le risorse da usare per affrontarli. Tuttavia, non di rado, rischiano di diventare un fardello troppo pesante, che rallenta, quando non ostacola del tutto, il nostro cammino. Gli eventi negativi, infatti, incidono solchi profondi, talvolta insanabili crepe, che minano l’integrità della nostra, già fragile e mai definitiva, identità, in un certo senso, “uccidendo” di volta in volta la parte più esposta e vulnerabile di ciò che siamo giunti ad essere in quel dato momento della nostra vita. E il tempo, purtroppo, non risana proprio tutte le ferite. Soltanto un magico colpo di spugna potrebbe lavar via quelle cicatrici che ci fanno più orrore e che non smettono mai di sanguinare, ma questo, sappiamo, è impossibile. O, almeno, lo è stato fino a poco tempo fa.
Un recente studio condotto dallo psichiatra e ricercatore canadese Alain Brunet sugli effetti derivanti dal PSTD (stress post traumatico) ha permesso, infatti, di sviluppare una nuova tecnica che integra sedute di psicoterapia con l’uso di specifici farmaci, finalizzata appunto alla rimozione selettiva della memoria. Si tratta di un ciclo di sei appuntamenti, durante i quali al paziente viene richiesto, prima, di trascrivere e, poi, di leggere ad alta voce il racconto dell’esperienza traumatica di cui intende liberarsi. All’inizio di ogni incontro, gli viene somministrata una dose di propranololo, il principio attivo betabloccante solitamente prescritto a chi soffre di ipertensione. L’assunzione del farmaco, unita alla rievocazione dell’evento, permetterebbe al paziente di cancellare dalla mente l’episodio che gli reca tanto dolore.
L’idea follemente geniale di poter scegliere cosa conservare e cosa scartare della memoria era già stato, nel 2004, il tema del film, diretto da Michel Gondry, premio Oscar per la sceneggiatura (2005), Se mi lasci ti cancello (il cui titolo originale è Eternal sunshine of the spotless mind, citazione di un verso di Alexander Pope, tratto dall’opera Eloisa to Abelard). Nella pellicola, i due protagonisti, Joel Barish (Jim Carrey) e Clementine Kruczynski (Kate Winslet) si incontrano per caso sulla spiaggia di Montauk, New York, e lungo il tragitto in treno verso Rockville Center iniziano a conoscersi, senza sapere di aver già condiviso una complessa e assai tormentata relazione di ben due anni. La loro storia era finita appena pochi giorni prima, in seguito all’ennesimo violento litigio, e Clementine aveva scelto di rivolgersi alla clinica Lacuna Inc., diretta dal dottor Howard Mierzwiak (Tom Wilkinson), per cancellare dalla sua memoria il ricordo di Joel e, con esso, il dolore che le avevano causato le numerose e sempre più gravi incomprensioni che nel tempo li avevano allontanati l’uno dall’altra. Dopo averlo scoperto, Joel decide di fare altrettanto, ma, per via di un errore del sistema, durante il processo di rimozione, resta parzialmente cosciente e si rende conto di non voler più dimenticare Clementine. A nulla valgono i suoi tentativi di conservare un qualsiasi elemento che possa ricondurlo all’immagine di lei e, al risveglio, tutto ciò a cui riesce a pensare è la spiaggia di Montauk, dove si reca e, di nuovo, la incontra. I due, come perfetti sconosciuti, cercano, non senza difficoltà, di entrare in sintonia, fino a quando il ritrovamento delle cassette in cui avevano registrato il racconto della loro storia non li mette di fronte alla dura verità. Sconvolti dal male che si erano già fatti e terrorizzati da quello che avrebbero ancora potuto farsi, per via delle inconciliabili differenze fra i loro temperamenti, decidono comunque di darsi un’altra opportunità.
Il finale del film sembra invitarci a riconoscere che dimenticare un fallimento non ci proteggerà da nuove sconfitte e che pertanto sarebbe più saggio ed utile imparare a far tesoro delle esperienze negative come di quelle positive. Dovremmo approcciare alla vita come i maestri giapponesi del kintsugi, che riparano vasi rotti con l’oro, valorizzando le crisi e i lutti in quanto preziose occasioni di crescita e perfezionamento, di trasformazione e rinascita.
In altre parole, «Conoscerai un grande dolore e nel dolore sarai felice. Eccoti il mio insegnamento: nel dolore cerca la felicità» (F. M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov).