VITTORIO EMILIANI
Giornalista e scrittore, con il Mulino ha pubblicato «Il furore e il silenzio. Vite di Gioachino Rossini» (nuova ed. 2018) e «Il fabbro di Predappio. Vita di Alessandro Mussolini» (2010). Fra i suoi libri più recenti: «Cinquantottini. L’Unione goliardica italiana e la nascita di una classe dirigente» (Marsilio, 2016) e «Lo sfascio del belpaese. Beni culturali e paesaggio da Berlusconi a Renzi» (Solfanelli, 2017).
ROMA CAPITALE MALAMATA
Non c’è altra città «capitale» quanto Roma: enorme centro di potere nell’antichità e poi con la Chiesa universale. Eppure è con una maggioranza mediocre che il Parlamento dell’Italia unita il 23 dicembre 1870 vota il trasferimento della capitale da Firenze, secondo una volontà che era stata di Cavour, oltre che di Garibaldi e Mazzini. Capitale «inevitabile», ma fra invidie taglienti. Una immagine sempre contrastata: matrona e ladrona, civilizzatrice e corruttrice. Scelte urbanistiche errate e speculazioni voraci, anche vaticane, ne intasano il centro, segregano l’immigrazione tumultuosa. Capitale incompresa dagli intellettuali, difesa dal solo Gabriele D’Annunzio, più tardi da Antonio Cederna. «Un suk» per Goffredo Parise, «la morte» per Mario Soldati. Questa è la cronaca viva e sofferta di due secoli in cui Roma è cresciuta di 15 volte. Ingovernabile senza strumenti speciali.
«Amata e odiata, adorata e insultata, esaltata quale modello eterno e accusata di essere la fonte del disfacimento morale dell’intero paese. Poco conosciuta e quindi incompresa, sepolta sotto una spessa coltre di luoghi comuni. A malapena sopportata»