Teodoro Wolf Ferrari è un romantico; il suo romanticismo vive oltre gli aspetti veristici della natura… Il quadro è decorazione, ricomposizione fantastica nel sentimento, nelle linee, nei colori delle impressioni maturate dentro di sé: è composizione armonica nella propria anima delle note discordi suggerite dal mondo circostante.
G. Damerini, 16 luglio 1910
Promossa dal Comune di Conegliano e da Civita Tre Venezie, la mostra Teodoro Wolf Ferrari. La modernità del paesaggio, dal 2 febbraio al 24 giugno 2018 al Palazzo Sarcinelli di Conegliano, presenta un’importante riflessione dedicata al pittore veneziano Teodoro Wolf Ferrari, che fa luce su alcuni aspetti fondamentali, ma ancora da approfondire, della storia dell’arte italiana tra XIX e XX secolo.
«Senz’alcun dubbio (…) artista della Modernità europea» secondo il giudizio critico di Lionello Puppi, Wolf Ferrari, veneziano, classe 1878, ha saputo assimilare e interpretare gli stimoli migliori della cultura secessionista di inizio ‘900 trasferendoli a Venezia, animata in quegli anni dalle esperienze fondamentali della Biennale e di Ca’ Pesaro, cui prese attivamente parte. La rassegna, curata da Giandomenico Romanelli con Franca Lugato, intende ricostruire questo contesto di fermenti, innovazioni e cambiamenti nell’arte, puntando il riflettore sulla vicenda artistica, straordinaria, di Teodoro. Vengono riunite assieme per la prima volta, in un percorso del tutto inedito, oltre 70 opere, tra le quali dipinti, acquarelli, pannelli decorativi, vetrate, studi per cartoline, sapientemente individuate presso collezioni private, gallerie, dimore di appassionati e intenditori, dove la produzione dell’artista si è principalmente concentrata. Un nucleo significativo è oggi messo a disposizione del pubblico dalla Collezione Coin, che a suo tempo ha salvato un patrimonio altrimenti destinato alla dispersione grazie a un’illuminata acquisizione.
Ad accompagnare il visitatore lungo le sale di Palazzo Sarcinelli sarà inoltre un percorso sonoro, realizzato attraverso i brani del compositore, fratello di Teodoro, Ermanno Wolf Ferrari (Venezia, 1876-1948), anch’egli partecipe di un ambiente culturale particolarmente colto e sensibile alle tendenze artistiche europee.
L’esposizione si snoda lungo 7 sezioni che abbracciano vari momenti ed esperienze, ripercorrendo l’intera produzione di Wolf Ferrari, attraverso un importante confronto non solo con alcuni dei giovani capesarini, ma anche con
autori quali Otto Vermehren e Mario De Maria. A testimonianza del notevole contributo critico vengono identificate le linee guida del linguaggio e della “poetica” dell’autore, rintracciabili in almeno tre direttive principali: la fantasiosa e inquietante simbologia böckliniana; il sintetismo di Pont-Aven attraverso il dialogo con l’ambiente di Ca’ Pesaro; la componente secessionista e più marcatamente klimtiana.
La formazione all’Accademia di Belle Arti con i maestri del paesaggio
Il percorso si apre con l’imprescindibile riferimento alla componente inquieta di derivazione böckliniana, senza tuttavia trascurare l’iniziale formazione dell’autore presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia, dove sin dal 1892 frequenta la “scuola di paesaggio” dei maestri Guglielmo Ciardi, Pietro Fragiacomo e Millo Bortoluzzi, orientandosi verso un superamento del verismo e realismo ottocenteschi. Come attesta il ciclo di dipinti realizzato tra il 1904 e il 1908 a Luneburgo, la brughiera in Bassa Sassonia vicino a Hannover, Lüneburger Haide – cui è dedicata la seconda sezione espositiva Brughiera a Luneburgo – in questa prima fase Teodoro sembra prendere le misure del suo itinerario e definire la chiave tematica e linguistica del suo impegno. Con queste opere ha già preso le distanze dai suoi maestri veneti per accogliere le istanze della cultura tedesca, suggerite da tutta una generazione di giovani artisti che amavano vivere immersi nella Natura e “ricondurre tutte le manifestazioni dell’arte alla sua più genuina espressione”.
Il tormentato simbolismo böckliniano
Dal 1896 Teodoro studia a Monaco, dove entra in contatto con alcuni degli ambienti simbolisti e secessionisti più avanzati e cosmopoliti del momento. Questo confronto viene rievocato in mostra sin dalla prima sezione introduttiva (Nell’aura di Böcklin) che accosta la versione declinata da Otto Verhemeren della celebre Isola dei Morti di Böcklin con l’opera wolfferrariana del 1917, l’Isola misteriosa. L’adesione alla poetica di qualificazione böckliniana viene poi largamente esplicitata nella terza sezione (Tempeste dall’ Isola dei morti) da un gruppo di opere ‘tenebrose’ realizzate intorno al 1908. Il paesaggio è notturno e si mostra in una scelta di elementi approssimativamente naturalistici lasciati volutamente indefiniti, incombenti e minacciosi. Qui sogno e incubo sembrano fondersi in un’atmosfera sospesa e onirica, cui fanno eco i massi arrotondati in Notte, le nuvole cupe e quasi confuse coi cipressi in Bufera, il tempio classico avvolto nell’oscurità in Paesaggio notturno, gli scheletri danzanti e vagamente assimilabili a Grazie o esili figure femminili in Danza macabra.
In questi anni Wolf Ferrari realizza, inoltre, due singolarissime versioni di Paradiso perduto, anch’esse presenti in mostra: «in esse confluiscono – spiega il curatore Giandomenico Romanelli – due componenti fondative del linguaggio di Teodoro: da un lato le pareti rocciose che già si erano imposte nell’immaginario nero e nordico dell’universo böckliniano; dall’altro lato, squarci di un paesaggio di concezione differente e nuova le cui origini vanno ricercate in un altro quadrante della tradizione pittorica europea e che ha, nell’ambiente veneziano di questi anni e nel gruppo dei giovani artisti di Ca’ Pesaro le sue più originali e convincenti
elaborazioni (ci si riferisce, com’è ovvio, alla pittura di Gino Rossi, di Ugo Valeri, di Umberto Moggioli, oltre che alle prove grafiche di Arturo Martini)».
Il sintetismo e il fervente ambiente di Ca’ Pesaro
Parallelamente alle grandi mostre che lo vedono protagonista in Germania (sin dal 1905 a Wiesbaden, Norimberga, Kiel, Berlino e poi dal 1910 ancora a Berlino, Amburgo, Monaco), Wolf Ferrari partecipa ed anima il dibattito artistico di quegli anni. A Venezia, infatti, si confronta con gli artisti di Ca’ Pesaro (come spiega ampiamente la quarta sezione intitolata Con i giovani di Ca’ Pesaro), i quali sotto la regia di Nino Barbantini, stavano avviando un percorso di ricerca teso a sfrondare il linguaggio espressivo da orpelli romantici e moduli accademici. Il dialogo in mostra con alcune opere di autori quali Gino Rossi e Ugo Valeri permetterà di restituire parte del contesto entro cui questi fermenti presero vita e di evidenziare qualche comunanza di percorso con l’itinerario artistico di Teodoro: colori decisi assolutamente anti-naturalistici, campiture cromatiche piatte, contorni netti. La sperimentazione stilistica è particolarmente evidente in Teodoro, che si dedica anche alla realizzazione di manifesti, gioielli, vetri. Esemplare in tal senso il pannello decorativo a quattro ante, presente in mostra. «Un cielo striato da linee orizzontali blu che potrebbe essere tolto di peso da Serusier o Bernard, il poderoso albero sulla destra dai contorni disegnati a masse globulari compatte; il terreno circostante punteggiato di schematici fiori azzurri e gialli, anch’esso delimitato da campiture in cloisonne» (G. Romanelli).
D’altronde l’artista, in occasione della sua terza partecipazione, nel 1912, all’annuale mostra di Ca’ Pesaro con due sale arredate di dipinti, vetrate, oggetti preziosi di oreficeria, si presenta come promotore del gruppo l’Aratro, idealmente connesso al movimento Die Scholle (La Zolla) di Leo Putz, “teso ad agganciare, attraverso l’esperienza dei Nabis, l’uso espressivo e simbolico del colore sulla lezione di Van Gogh e Gauguin” (Puppi). L’intento dell’Aratro, che anche nel nome rivendicava all’arte una valenza artigianale, era quello di creare un “ambiente armonico”, dove le arti applicate assumessero un ruolo di prim’ordine. «Dall’Aratro, come dal nome della più eterna e della più salda, della più assidua e più feconda delle macchine – osserva Teodoro – s’intitola un gruppo di giovani artisti veneziani, persuasi dall’opportunità di ricondurre anche da noi tutte le manifestazioni dell’arte alla sua più genuina espressione, la decorazione».
La componente klimtiana
È questa la stagione più intensa e creativa di Wolf Ferrari che realizza le celebri tele di betulle, salici, cipressi, glicini (presenti nella quinta e sesta sezione Riflessi sull’acqua; Come Klimt: betulle e salici) di evidente ispirazione secessionista e klimtiana. In queste composizioni, osserva Romanelli, «grandi masse di verde punteggiate di fiori danno vita a una sorta di basso continuo cromatico da cui si ergono esili fusti che sembrano legare la terra alla volta celeste o connettere, come liane pendenti, la vastità di cieli nuvolosi al lievitare delle colline». Non è probabilmente casuale la coincidenza di due importanti eventi espositivi: nel 1910
la IX edizione della Biennale proponeva la sorprendete sala di Klimt e a Ca’ Pesaro veniva presentata una personale di 52 opere di Teodoro Wolf Ferrari.
Con questi dipinti del secondo decennio del ‘900, tra cui spiccano Il cipresso e le rose (1920), Betulle (1913), Betulle e glicini (1919), l’itinerario poetico wolfferrariano raggiunge il suo apice, consolidando la propria originalità su un panorama europeo. «Il disegno è andato oltre il cloisonnisme sintetista – spiega Romanelli – ma non ha mai ceduto a suggestioni naturalistiche o impressioniste mantenendo sempre quella temperie simbolista che tanto contribuisce al mistero di queste tele: non uomini ne’ animali attraversano la scena, l’atmosfera è sospesa e onirica, potremmo dire che su di essa incombono destini inesprimibili o presagi di muta eloquenza che l’angelo e il demone della modernità trascinano in scenari surreali e magici».
Un’arcana bellezza
Dal 1920 Teodoro lascia lo studio in campo san Barnaba e si trasferisce definitivamente a San Zenone degli Ezzelini (dove si spegnerà nel 1945), senza mai tagliare i rapporti con la città lagunare dove i suoi lavori continuano a essere esposti. Negli anni ’20 e ’30 partecipa alle Biennali, alle rassegna della Bevilacqua La Masa e a importanti mostre nazionali, tra le quali la Promotrice di Torino nel 1922 e la Biennale romana nel 1923 e 1925. In questa fase, con cui si chiude il percorso espositivo che approda alla sezione Una passeggiata dal Grappa al Piave, si registra un decisivo cambiamento. Teodoro sembra abbandonare la scrittura sperimentale che aveva caratterizzato la sua produzione in una sorta di virata neoimpressionista dai toni ariosi e solari. Lo stesso autore scrive in quel periodo: «Dunque, soltanto ciò che direttamente è tolto dal Vero, al contatto intimo con la Natura poteva interessarmi…». Tuttavia, proprio in questo periodo intimista e per certi versi decadente, Wolf Ferrari raggiunge, nella delicata rappresentazione dei paesaggi veneti e delle dolci pianure che vanno da Asolo a San Zenone, un’armonia e una compostezza rare. «Possiamo ora dire con più di qualche ragione – osserva Romanelli – che il Teodoro che esce da questa mostra ci affascina anche in questa sua debolezza debilitante, anche in questo lungo epilogo cifrato perché il “tranquillo luogo di campagna” in cui egli ritira il proprio corpo e forse nasconde la propria anima è in realtà il sito dove vanno a morire le illusioni e dove può però fiorire una bellezza arcana».
La rassegna, accompagnata da un catalogo edito da Marsilio Editori, rappresenta un’occasione preziosa per riscoprire la pittura di Wolf Ferrari, cui restituisce la centralità che merita, riconoscendolo come figura fondamentale di una stagione magica dell’arte veneziana e italiana che guardava all’Europa e alla Modernità ed esprimeva un’emergente soggettività propria di una nuova, entusiasmante epoca: il Novecento.
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