Dal 14 novembre con la mostra Il tocco di Pigmalione. Rubens e la scultura a Roma, a cura di Francesca Cappelletti e Lucia Simonato, la Galleria Borghese inaugura la seconda tappa di RUBENS! La nascita di una pittura europea, un grande progetto realizzato in collaborazione con Fondazione Palazzo Te e Palazzo Ducale di Mantova che racconta i rapporti tra la cultura italiana e l’Europa attraverso gli occhi del Maestro della pittura barocca, e si inserisce anche in una più ampia ricerca della Galleria dedicata ai momenti in cui Roma è stata, all’inizio del Seicento, una città cosmopolita.
Con 50 opere provenienti dai più importanti musei al mondo – tra cui il British Museum, il Louvre, il Met, la Morgan Library, la National Gallery di Londra, la National Gallery di Washington, il Prado, il Rijksmusem di Amsterdam, solo per citare alcuni – la mostra è divisa in 8 sezioni: Il tocco di Pigmalione sottolinea il contributo straordinario di Rubens, alle soglie del Barocco, a una nuova concezione dell’antico e dei concetti di naturale e di imitazione, mettendo a fuoco la novità dirompente del suo stile e come lo studio dei modelli costituisca un’ulteriore possibilità per un nuovo mondo di immagini. Per questo la mostra tiene conto non solo delle opere italiane che documentano lo studio appassionato e libero dagli esempi antichi, ma anche della sua capacità di rileggere esempi rinascimentali e confrontarsi con i contemporanei, approfondendo aspetti e generi nuovi.
“Calamita per gli artisti del Nord Europa fin dal Cinquecento, la Roma di Rubens, fra i pontificati Aldobrandini e Borghese, è il luogo dove studiare ancora l’antico, di cui si cominciano a conoscere i capolavori della pittura, con il ritrovamento nel 1601 delle Nozze Aldobrandini – sottolinea Francesca Cappelletti, Direttrice Galleria Borghese e curatrice della mostra –. È il momento della Galleria Farnese di Annibale Carracci e della cappella Contarelli di Caravaggio, di cui si stordisce una generazione. Attraverso gli occhi di un giovane pittore straniero come Peter Paul Rubens guardiamo ancora una volta all’esperienza dell’altrove, cerchiamo di ricostruire il ruolo del collezionismo, e della collezione Borghese in particolare, come motore del nuovo linguaggio del naturalismo europeo, che unisce le ricerche di pittori e scultori nei primi decenni del secolo.”
Nel corso del Seicento Peter Paul Rubens viene considerato dai contemporanei, l’erudito francese Claude Fabri de Peiresc e altri letterati della République de Lettres, uno dei più grandi conoscitori di antichità romane: nulla sembra sfuggire alla sua capacità di osservazione e al suo desiderio di interpretare gli antichi maestri, e i suoi disegni rendono vibranti le opere che studia, aggiungendo movimento e sentimento ai gesti e alle espressioni.
Rubens mette in atto nelle storie quel processo di vivificazione del soggetto che utilizza nel ritratto. In questo modo marmi, rilievi ed esempi celebri di pittura rinascimentale escono ravvivati dal suo pennello, come anche le vestigia del mondo antico. Un caso esemplare è quello della famosa statua dello Spinario che Rubens disegna, a sanguigna, e poi con carboncino rosso, riprendendo la posa da due punti di vista diversi. In questo modo il disegno sembra eseguito da un modello vivente invece che da una statua, tanto da far immaginare ad alcuni studiosi che il pittore abbia utilizzato un ragazzo atteggiato come la scultura. Questo processo di animazione dell’antico, per quanto eseguito nel primo decennio del secolo, sembra anticipare le mosse di artisti che, nei decenni successivi al suo passaggio romano, verranno definiti barocchi.
Come le intuizioni formali e iconografiche di Rubens filtrino nel ricco e variegato mondo romano degli anni Venti del Seicento è un problema che non è stato ancora affrontato in modo sistematico dagli studi.
La presenza in città di pittori e scultori che si erano formati con lui ad Anversa, come Van Dyck e Georg Petel, o che erano entrati in contatto con le sue opere nel corso della formazione, come Duquesnoy e Sandrart, garantì di certo l’accessibilità dei suoi modelli a una generazione di artisti italiani ormai abituati a confrontarsi con l’Antico alla luce dei contemporanei esempi pittorici e sulla base di un rinnovato studio della Natura. Tra tutti, Bernini: i suoi gruppi borghesiani, realizzati negli anni Venti, rileggono celebri statue antiche, come l’Apollo del Belvedere, per donare loro movimento e traducono in carne il marmo, come avviene nel Ratto di Proserpina.
“In questa sfida tra le due arti, Rubens dovette apparire a Bernini come il campione di un linguaggio pittorico estremo, con cui confrontarsi: per lo studio intenso della natura e per la raffigurazione del moto e dei ‘cavalli in levade’ suggeriti dalla grafica vinciana, che sarebbero stati affrontati anche dallo scultore napoletano nei suoi marmi senili con la stessa leonardesca “furia del pennello” riconosciuta da Bellori al maestro di Anversa; infine anche per i suoi ritratti, dove l’effigiato cerca il dialogo con lo spettatore, proprio come accadrà nei busti di Bernini per i quali è stata coniata la felice espressione di speaking likeness“, afferma Lucia Simonato, curatrice della mostra.
La mostra Il tocco di Pigmalione cerca di illuminare il controverso rapporto fra i capolavori berniniani e il naturalismo rubensiano, così come lo furono altre sculture giovanili dell’artista, come la Carità vaticana nella Tomba di Urbano VIII, già giudicata dai viaggiatori europei del tardo Settecento ‘una balia fiamminga’.
In questo contesto figurativo, la tempestiva circolazione di stampe, tratte da prove grafiche rubensiane, accelerò il dialogo per tutti gli anni Trenta del Seicento sollecitando operazioni editoriali come la Galleria Giustiniana, dove le statue antiche prendono ormai definitivamente vita, secondo un effetto già definito Pigmalione dalla critica.