22 febbraio ore 21.00
23 febbraio ore 21.00
Teatro delle Passioni, Modena
Daria Deflorian / Antonio Tagliarini
Chi ha ucciso mio padre
testo di Édouard Louis
regia Daria Deflorian e Antonio Tagliarini
traduzione di Annalisa Romani edita da Bompiani / Giunti Editore S.p.A.
adattamento italiano Francesco Alberici, Daria Deflorian, Antonio Tagliarini
collaborazione all’adattamento Attilio Scarpellini
con Francesco Alberici
luci Giulia Pastore
costumi Metella Raboni
assistenza alla regia Chiara Boitani
collaborazione artistica Andrea Pizzalis
organizzazione e promozione Giulia Galzigni / Parallèle
una produzione A.D., Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Emilia Romagna Teatro Fondazione, TPE-Teatro Piemonte Europa / Festival delle Colline Torinesi e FOG Triennale Milano Performing Arts
Qui a tué mon père, Copyright © 2018 Édouard Louis /All rights reserved
Édouard Louis, Chi ha ucciso mio padre, traduzione di Annalisa Romani © 2019 / Giunti Editore S.p.A./Bompiani
durata 1 ora e 30 minuti
prima assoluta
Spettacolo in italiano con sovratitoli in inglese
Il 22 febbraio, al termine dello spettacolo, l’incontro pubblico con l’autore Édouard Louis, moderato dal giornalista e critico Attilio Scarpellini.
Ingresso libero
Dopo Quasi niente, prosegue la collaborazione fra Emilia Romagna Teatro Fondazione, Daria Deflorian e Antonio Tagliarini con la nuova produzione Chi ha ucciso mio padre del giovane scrittore ventisettenne Édouard Louis, considerato fin dal suo esordio un vero e proprio caso letterario francese.
Per la prima volta Deflorian/Tagliarini si affidano a un testo non scritto da loro, ma da un autore con cui condividono affinità importanti, a cominciare dalla relazione tra vita e finzione e il faticoso rapporto tra il singolo individuo e la società. Uno sguardo non più rabbioso, ma riconciliato verso i cattivi padri. Un’intimità che continuamente si apre alla Storia e al presente. Esperienza individuale e collettiva in un dialogo per voce sola.
Il ’68 i padri li voleva uccidere – così si diceva. Quarant’anni dopo, nelle pagine di un testo dettato, sono parole dello stesso Édouard Louis, non dalle esigenze della letteratura, ma da quelle della necessità e dell’urgenza – da quelle del fuoco – uno scrittore di 26 anni si mette in caccia degli assassini del padre e li scopre tra i dominanti, ma soprattutto rimette all’ordine del giorno della scrittura le vite di cui nessuno vuole più sentir parlare, le nude vite di coloro a cui il potere toglie qualunque protezione. Il miracolo è che questo atto d’accusa non rende meno toccante la kafkiana “lettera al padre” in cui il figlio dà ripetutamente del tu all’uomo che per anni gli ha negato ogni confronto, eludendo in tal modo il confronto con sé stesso. Cercandolo e trovandolo dove lui non sa nemmeno di essere, nelle profondità di una vocazione subito espropriata dalle dure leggi di una condizione sociale che da sempre è anche un’ideologia, un aspetto della dominazione. Che sia la parola rivoluzione – detta dal padre – l’ultima parola del testo può far riflettere: una fortissima inquietudine corrode il cuore della Francia profonda (e non solo).
Ma è più interessante chiedersi cosa è accaduto nel frattempo. E cosa è accaduto Louis lo racconta, quasi fiabescamente in una pagina di questo dialogo per voce sola: «Un giorno, in autunno – scrive – erano stati aumentati di quasi cento euro gli aiuti per il nuovo anno scolastico. Erano versati ogni anno alle famiglie per aiutarle a comprare la cancelleria, i quaderni, le cartelle. Eri pazzo di gioia, avevi gridato in soggiorno: andiamo al mare, e siamo andati in sei nella nostra macchina da cinque…Tutto il giorno è stato una festa. Non ho mai visto le famiglie che hanno tutto andare al mare per festeggiare una decisione politica, perché la politica per loro non cambia quasi nulla».
La vera differenza, in questo scarno e incisivo racconto di un padre e di un figlio rispetto a quelli che si sono succeduti nella storia della letteratura, sta proprio nella scena in cui si svolge: dentro una classe operaia ormai condannata all’obsolescenza dalla voga liberista dove un figlio omosessuale se la deve vedere con un padre ossessionato dal maschile e dalla consapevolezza di essere a sua volta un emarginato, un dominato, un perdente, proprio come le persone che più odia e a cui più teme di rassomigliare, gli arabi, le donne, gli effeminati.
C’è una premessa, una definizione che Louis versa sul suo racconto come un liquido di contrasto che lo fa cambiare di colore: alla domanda su cosa significhi per lei la parola razzismo – scrive colui che anche da scrittore resta un allievo spirituale della sociologia di Pierre Bourdieu – l’intellettuale americana Ruth Gilmore risponde che il razzismo «è l’esposizione di certe popolazioni a una morte prematura».
È una definizione che nel seguito del racconto è destinata a esplodere come una carica a rilascio lento, con una violenza di denuncia e con una forza vendicatrice a cui la letteratura sembra aver da tempo rinunciato: il padre viene consegnato a una morte prematura non da un precario sé stesso che non ha mai avuto la possibilità di illuminare, ma dalle leggi e dalle regole di un potere che ha smesso di guardare in faccia le persone che espelle quando sono di troppo.
Scrittore che visibilmente guarda al teatro, Édouard Louis diventa per noi il logico passaggio verso una drammaturgia performativa che guarda sempre di più alla letteratura: abituati a portare in scena le nostre parole e il nostro vissuto – distillati attraverso il lungo percorso di prove – per la prima volta abbiamo scelto di affidarci al testo di un altro con cui condividiamo alcune affinità fondamentali. A cominciare, ovviamente, dalla relazione tra vita e finzione. E per compiere un’altra tappa nella ricerca che da tempo ci accompagna sui legami tra figura e sfondo, tra esperienza singolare ed esperienza collettiva. Scegliendo Francesco Alberici come interprete abbiamo cercato la massima distanza possibile dal mimetismo con la voce che in Chi ha ucciso mio padre parla in prima persona. Non è nella somiglianza che cerchiamo un piano di verità tra questa storia e il pubblico, ma nella possibilità, aperta dalla didascalia iniziale del testo di raccontare la storia di tutti noi attraverso una storia di uno solo. La nostra regia e l’interpretazione di Francesco Alberici non saranno altro che lo sviluppo ulteriore di un cantiere dove da molto tempo lavoriamo insieme.
Daria Deflorian / Antonio Tagliarini
Édouard Louis
Édouard Louis nato Eddy Bellegueule nel 1992 a Hallencourt nel Nord della Francia da una famiglia della classe operaia. Frequenta la Scuola Normale Superiore di Parigi e nel 2013 ottiene di poter cambiare nome in Édouard Louis. Ha curato il volume Pierre Bourdieu: L’insoumission en héritage (PUF, 2013) ed è ideatore e direttore della collana Des Mots della Presses Universitaires de France.
Il suo primo romanzo, Farla finita con Eddy Bellegueule (2014), è diventato subito un caso in Francia ed è in corso di pubblicazione in venti lingue. Il filosofo Didier Eribon ha parlato di un “exploit” letterario, il quotidiano Le Monde lo ha celebrato come «la storia di un fallimento salutare» e il regista Xavier Dolan ha sottolineato «l’autenticità inimitabile dei dialoghi, come se Édouard Louis scrivesse da sempre». Nel 2016 ha pubblicato Storia della violenza, messo poi in scena da Thomas Ostermeier.
Scritto su richiesta del regista e attore Stanislas Nordey, Chi ha ucciso mio padre (2018) è stato messo in scena dallo stesso Nordey nella primavera 2019. Il regista belga Ivo van Howe dirigerà in primavera la versione olandese del testo. In Italia tutte le sue opere sono pubblicate da Bompiani.
Daria Deflorian e Antonio Tagliarini
Daria Deflorian e Antonio Tagliarini sono autori, registi e performer. Il primo lavoro nato dalla loro collaborazione è del 2008, Rewind, omaggio a Cafè Müller di Pina Bausch. Tra il 2010 e il 2011 hanno lavorato al “Progetto Reality” che ha dato vita a due lavori: l’installazione performance czeczy/cose (2011) e lo spettacolo Reality (2012), lavoro per il quale Daria Deflorian ha vinto il Premio Ubu 2012 come miglior attrice protagonista. Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni con la collaborazione di Monica Piseddu e Valentino Villa ha debuttato nel 2013 al Romaeuropa Festival. Lo spettacolo ha vinto il Premio Ubu 2014 come miglior novità italiana e nel 2016 il Premio della Critica come miglior spettacolo straniero in Quebec, Canada. Hanno poi creato due site specific: Il posto (2014) presentato a Milano per il progetto Stanze e Quando non so cosa fare cosa faccio (2015) prodotto dal Teatro di Roma e ispirato al film di Antonio Pietrangeli, Io la conoscevo bene. Il cielo non è un fondale, con la collaborazione di Francesco Alberici e Monica Demuru ha debuttato nel 2016 a Losanna al Theatre de Vidy. Gianni Staropoli ha vinto per questo spettacolo il premio Ubu per le migliori luci.
Nel 2018 i due progetti attorno al film Deserto Rosso di Michelangelo Antonioni: Scavi, una performance condivisa con Francesco Alberici che ha debuttato al Festival di Santarcangelo a luglio e lo spettacolo Quasi niente, presentato a Lugano al Lac e poi in prima nazionale a Roma al Teatro Argentina a
ottobre per il festival Romaeuropa. Lo spettacolo, con la collaborazione alla drammaturgia di Francesco Alberici vede in scena, oltre ai due autori, Monica Piseddu, Francesca Cuttica e Benno Steinegger.
Francesco Alberici (Milano,1988). Terminati gli studi classici, si laurea in Economia all’Università Bocconi di Milano. Si diploma come attore alla scuola Quelli di Grock e lavora in diversi spettacoli della compagnia. Studia tra gli altri con Danio Manfredini e Massimiliano Civica.
Nel 2014 fonda con Claudia Marsicano e Daniele Turconi il collettivo Frigoproduzioni con cui realizza Socialmente (2014) e Tropicana (2017). Con Daria Deflorian e Antonio Tagliarini ha lavorato in Il cielo non è un fondale (2016) come attore e collaboratore al progetto, in Scavi (2018) come coautore e attore e in Quasi niente (2018) come collaboratore alla drammaturgia e aiuto regia. Ha curato insieme a Silvia Gussoni il volume Milo Rau. Realismo globale, edito da Cue Press nel 2019.