Venezia, 26 giugno 2018. Il bicentenario della prima apertura pubblica del museo è l’occasione per continuare un ampio programma di iniziative di conservazione e valorizzazione iniziato nel settembre 2017 con la mostra Canova, Hayez, Cicognara. L’ultima gloria di Venezia in corso sino al prossimo 8 luglio.
L’importante ricorrenza è stata poi celebrata con un eccezionale incremento del patrimonio artistico del museo reso possibile dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo con la collaborazione di Fondazione Venetian Heritage Onlus e Fondazione Venice in Peril Fund (Londra). Da poco è stata attivata, insieme all’Accademia di Belle Arti, la prima residenza d’artista che si svolgerà nel 2019.
Le Gallerie dell’Accademia offrono adesso la straordinaria occasione di vedere riuniti tre dipinti di Giorgione, un tempo tutti parte della collezione veneziana del patrizio Gabriele Vendramin. Si tratta della famosissima Tempesta, della Vecchia e del Concerto o Davide Cantore, opera data in comodato quinquennale da un collezionista privato.
Le tre opere saranno esposte insieme per un mese in sala XXIII dopodiché la Vecchia sarà sottoposta a un importante restauro, mentre rimarranno visibili gli altri due dipinti.
L’allestimento temporaneo le vedrà accostate per permettere di cogliere diverse declinazioni dell’arte di Giorgione alle Gallerie: la Tempesta un’innovazione verso la pittura di paesaggio, la Vecchia un ritratto del tempo, il Concerto una nuova monumentalità della figura.
La dott.ssa Paola Marini,
Direttrice delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, afferma:
L’itinerario di iniziative e la riflessione che hanno accompagnato l’intenso bicentenario delle Gallerie dell’Accademia trovano una nuova tappa saliente nel deposito quinquennale di questo dipinto così importante per la storia dell’arte e del collezionismo.
Ci onora il gesto di fiducia dei proprietari e la loro scelta lungimirante di accostare il Concerto già Vendramin agli altri dipinti di Giorgione presenti nella stessa prestigiosa raccolta veneziana. L’esperienza della visita del nostro museo sarà da oggi più unica e coinvolgente.
Le opere sono state presentate alla stampa oggi, 26 giugno 2018 alle ore 12, presso la Sala XXIII delle Gallerie, con gli interventi di:
Paola Marini, Direttrice delle Gallerie dell’Accademia di Venezia
Laura Mattioli, Storica dell’arte
Giacomo Rossi, Collezionista
I dipinti di Giorgione in collezione Vendramin
Le Gallerie dell’Accademia, grazie al generoso deposito quinquennale del Concerto da parte del proprietario, offrono al pubblico la straordinaria occasione di vedere riuniti tre dipinti di Giorgione, un tempo tutti parte della collezione veneziana del patrizio Gabriele Vendramin (1484 – 1552). Quest’ultimo, membro di una casata ascesa al patriziato a seguito dell’aiuto dato alla Repubblica durante la guerra contro Genova per la riconquista di Chioggia nel 1381, era discendente di Andrea Vendramin, doge di Venezia dal 1476 al 1478. Gabriele era un raffinato uomo di cultura, committente di Giorgione e di Tiziano – che per lui eseguì il celebre paliotto votivo con il Ritratto della famiglia Vendramin oggi alla National Gallery di Londra – e responsabile della formazione, nel suo palazzo a Santa Fosca, di un famoso “camerino delle anticaglie” dove si conservava anche il prezioso libro di disegni di Jacopo Bellini oggi al British Museum di Londra. La presenza della Tempesta nella raccolta di Gabriele Vendramin venne annotata nel 1530 da Marcantonio Michiel con la succinta descrizione seguente: “El paesetto in tela cum la tempesta, cum la cingana et il soldato, fu de mani de Zorzi de Castelfranco”, che, oltre a cogliere lo straordinario effetto meteorologico dell’imminente temporale, contiene il titolo con cui ancora oggi indichiamo il quadro.
L’esistenza nella medesima collezione di altri due dipinti di Giorgione, la Vecchia e il Concerto, si basa sull’inventario dei beni redatto tra il 1567 e il 1569, dopo la morte di Gabriele Vendramin, dove si registra “Il retratto de la Madre de Zorzon de man de Zorzon con suo fornimento depento con l’arme de chà Vendramin” e un’altra opera di Giorgione “con tre grandi teste che cantano”, analizzata più puntualmente in un inventario successivo (1601) come “una testa grande e doi altre teste per una banda in ombra come par”.
In seguito si rintraccia menzione del Concerto nell’elenco, redatto tra il 1667 e il 1669, della collezione lasciata in eredità dal pittore Nicolas Régnier, costituita proprio al momento della dispersione nel 1657 della raccolta Vendramin, ad opera degli eredi. Lì si legge “un quadro di Giorgione de Castelfranco dove è dipinto Sansone mezza figura del viso quale s’appoggia con una mano sopra d’un sasso mostra rammaricarsi della chioma tagliata con dietro due figure che ridono di lui”. Il fraintendimento del soggetto si deve alla trasformazione dell’oggetto su cui la figura centrale
poggia la mano, dovuto ad ampie ridipinture antiche destinate a nascondere i danni causati da una pulitura a soda del quadro. Grazie all’intervento di restauro compiuto da Giovanni Rossi nel 1985, è stato possibile riconoscere nell’oggetto anziché una pietra, attributo compatibile con Sansone, una lira da braccio del primo Cinquecento vista da tergo con un disegno geometrico in lacca rossa parzialmente visibile lungo i bordi. Di conseguenza, si può supporre che sia stato Régnier stesso, coinvolto anche nel commercio artistico, a trasformare la scena originaria in un diverso episodio biblico.
Il Concerto
Il riconoscimento della paternità giorgionesca del dipinto si deve a Roberto Longhi, che si espresse brevemente in tal senso nel Viatico per cinque secoli di pittura veneziana (1946) e più diffusamente in una lettera indirizzata, il 30 marzo 1944, al collezionista milanese Gianni Mattioli, allora in procinto di acquistare l’opera. Il quadro venne esposto a Venezia nel 1955 alla mostra giorgionesca con un’attribuzione dubitativa al maestro di Castelfranco, che incontrò il parere negativo di Pietro Zampetti (1955) e Giles Robertson, propensi a considerarla opera sensibilmente più tarda. Successivamente l’attribuzione a Giorgione venne ribadita da Carlo Volpe (1963), Giulio Bora (1992), Mauro Lucco (1994), Alessandro Ballarin (1993) e Giorgio Fossaluzza (2009). Gli studiosi favorevoli all’autografia giorgionesca collocano l’opera nel segmento finale della produzione dell’artista, la cui ricostruzione risulta particolarmente complessa data la scarsità di testimonianze superstiti e il loro cattivo stato di conservazione. Già a partire da Longhi, l’accento viene posto sulla pronunciata influenza di Dürer che, presente a Venezia tra il 1505 e l’inizio del 1507, porta in laguna un nuovo linguaggio più realistico, tipico dell’arte nord europea, qui evidente nelle espressioni caricate dei volti. Allo stesso tempo vi si vede riflesso il nuovo orientamento di Giorgione verso il classicismo, grazie anche all’esperienza maturata dall’artista nel campo dell’affresco (palazzo Loredan a San Marcuola, poi Vendramin Calergi, 1507), che lo porta ad una nuova monumentalità nella presentazione della figura, dilatata a riempire l’intero spazio del dipinto, e amplificata dall’impiego di una pennellata ampia e libera.
Il soggetto del dipinto è stato diversamente decifrato. Alle possibili interpretazioni della scena quale Concerto, secondo l’inventario Vendramin, oppure Sansone deriso, sulla scorta dell’inventario Régnier, si è di recente aggiunta un’altra proposta formulata da Giorgio Fossaluzza (2009): si potrebbe trattare di una libera interpretazione di un episodio veterotestamentario, meglio compatibile anche con le vesti dei personaggi, riconosciute come costumi ebraici: al centro Davide in atto di cantare, accompagnandosi con la cetra per alleviare la tristezza del re Saul, alla presenza di suo figlio Gionata. Laura Mattioli ritiene che si possa riconoscere nel dipinto un autoritratto di Giorgione stesso, che si rappresenta come “Davide cantore”, con un riferimento all’attività di musico dell’artista. Già in precedenza Giorgione si era raffigurato in veste di Davide, come testimonia la tavola oggi all’Herzog Anton Ulrich Museum di Braunschweig citata del Vasari e riprodotta in un’incisione di Wenceslaus Hollar prima che fosse tagliata nella parte bassa, raffigurante la testa di Golia. I lineamenti del volto dei due ritratti, malgrado l’ardito scorcio dal basso nel nostro, sono infatti molto simili. Le indagini all’infrarosso e radiografiche, compiute in occasione dell’esposizione del dipinto a Castelfranco nel 2009, hanno rilevato una redazione pittorica sottostante, di andamento orizzontale, in cui è possibile riconoscere un paesaggio boscoso con la figura di un soldato con scudo che si piega a specchiarsi in un ruscello, un’iconografia tipica del mondo giorgionesco.