Quando si inizia a leggere “La ‘ndrangheta come alibi – Dal 1945 ad oggi” di Ilario Ammendolia, Città del Sole Edizioni, si ha un’idea del tutto diversa – e sbagliata – di quello che il libro affronterà. Non sono le storie di delinquenti e potenti collusi ad essere protagoniste, ma quelle della povera gente. Degli straccioni, dei contadini, di tutti quei calabresi che hanno provato ad alzare la testa e a ribaltare lo stato delle dominazioni prima nobili e poi istituzionali e, proprio per questo, puniti e trasmessi ai posteri come malavitosi, pur senza esserlo.
Al centro del testo di Ammendolia (giornalista, scrittore, ed ex sindaco di Caulonia) ci sono le dinamiche umane di alcuni eventi centrali per la storia calabrese i quali, nella rilettura dei vincitori, hanno ribaltato le cose e consegnato ai posteri un’altra verità, che negli anni si è trasformata in fardello fino a diventare – come recita il titolo – alibi.
Recentemente sono stati resi noti alcuni documenti, tuttora inediti, risalenti a quella che è passata alla storia come “La Repubblica rossa di Caulonia” e che, a differenza di altre iniziative simili nel resto d’Italia, era stata a lungo bollata come di matrice ‘ndranghetista. Gli stralci trascritti da Ammendolia apportano un notevole contributo che racconta ben altro di quello che la storiografia ufficiale ha finora tramandato, dimostrando come delle vere e proprie antenate delle “fake news”, costruite ad arte e ripetute fino a farle credere vere, abbiano dato il via ad una macchina del fango contro la Calabria e i calabresi, ormai vinti da un pregiudizio che li vuole delinquenti nel 27% del loro totale. Un dato venuto fuori non si sa come né da chi, ma ormai riconosciuto come effettivo e sfruttato all’occorrenza per mantenere lo status quo di un sistema di potere, maneggiato e mantenuto soprattutto da categorie di non eleggibili (dunque non solo da politici, ma anche e soprattutto da figure come magistrati, presidenti di enti e imprenditori). In questo clima, la ‘ndrangheta si è fortificata ed è passata da fenomeno marginale ad essere una delle associazioni mafiose più forti d’Europa e, con la “scusa” della lotta alla ‘ndrangheta, in Calabria si sono ormai perse delle libertà fondamentali che dovrebbero essere garantite in uno stato di diritto. Arresti preventivi di massa, perquisizioni, comuni sciolti per mafia: operazioni come queste sono all’ordine del giorno e poco importa che in tantissimi casi si risolvano con un nulla di fatto, con accuse decadute e imputati prosciolti perché i fatti non sussistono. Mediaticamente tutto contribuisce a fornire e diffondere l’immagine di una regione in cui la delinquenza regna indisturbata e dove, per questo, la presenza dell’esercito in strada e il pugno di ferro da parte dei giudici non solo è legittimo: è doveroso. L’ultimo in ordine di tempo a subire questo modus operandi è stato – per fare un esempio su tutti – Mimmo Lucano, sindaco di Riace e colpevole, secondo Ammendolia, di aver «dimostrato che altra e diversa deve essere la strada da seguire qualora si volesse davvero sconfiggere l’associazione criminale più ricca e potente dell’Occidente».
Tra la Repubblica di Caulonia e i fatti di Riace ci sono in mezzo oltre settant’anni, eppure il fil rouge che le lega, pagina dopo pagina, diventa chiaro e – purtroppo – spaventoso.
Salta la divisione netta tra “buoni e cattivi”. Ciò che resta è una regione in ostaggio di una classe dirigente vile e conformista, che ogni giorno si vede privata di diritti fondamentali in nome di una lotta alla ‘ndrangheta che non ha portato alcun frutto né beneficio. Una lotta di facciata che, spente le televisioni e tolte le immagini di persone in manette che sfilano sotto i flash, non ha intaccato di un minimo lo strapotere dell’associazione a delinquere più pericolosa e feroce d’Italia.
Da tempo Ammendolia si batte perché un’altra verità sulla Calabria venga fuori, eppure nell’introduzione di questa sua ultima fatica letteraria scrive che non avrebbe mai voluto occuparsi di questo saggio, che è stato doveroso ma che lo ha fatto controvoglia. Come mai?
«Non è facile continuare a combattere dopo 60 anni di lotta al “fronte” anche se da soldato semplice – ci racconta – Avverti la stanchezza e, a volte, la solitudine e le incomprensioni. Ti rendi conto che il tuo popolo è stato sconfitto e che la tua terra ha pagato un prezzo enorme. E tale sconfitta è anche tua ed infatti te la senti bruciare sulle carni. A volte, vorresti lasciarti andare con leggerezza, consapevole di non aver più la forza per reagire, poi comprendi di non poter disertare nel momento della disfatta. E così, ancora una volta, stringi i denti e fai quello che ritieni giusto fare. Il mio saggio nasce da questa consapevolezza di non poterti tirare indietro».
Una delle cose che salta all’occhio scorrendo il suo libro, rimarcata da lei in conclusione, è l’assenza praticamente totale – in tempi più recenti – di un classe politica degna di nota. Possibile che nessuna personalità di quelle arrivate alle luci del palcoscenico del Parlamento, notoriamente considerate le più importanti per un territorio, sia stata alimentata da una qualsiasi necessità di riscatto?
«La Calabria ha avuto notevoli personalità politiche di valore e coraggiose. Ritengo però che non abbia avuto una strategia politica elaborata nella nostra Regione anche se in una cornice nazionale. La nostra “resistenza” è stata la lotta per la terra ma, da un certo punto in poi, tale lotta è stata ingessata all’interno della strategia della “classe operaia”. Il movimento meridionale non ha mai aperto alla nostra gente le porte dello “Stato”. Sono entrati singoli rappresentanti nelle stanze del “potere” ma non il nostro popolo che ha continuato a percepire – e non a torto – lo Stato come “lontano e nemico”».
Soprattutto riferendosi alle varie decisioni messe in atto dai vari governi che si sono succeduti per il contrasto alla ‘ndrangheta, parla di “confusione sulla strategia di lotta alle cosche”. A suo avviso, da dove si dovrebbe partire per averne una meno confusa, più funzionale?
«C’è un contrasto alle cosche che deve avvenire sul piano repressivo anche se sempre in una cornice di sostanziale rispetto delle garanzie costituzionali. Ma tale aspetto non esaurisce per nulla i compiti dello Stato. Molto più seria è l’esigenza di sterilizzare il ventre che partorisce la ‘ndrangheta. Questo sarebbe il compito principale dello Stato e della “Politica”. Per esempio basterebbe attuare l’articolo 3 della Costituzione per dare un contributo fondamentale alla lotta alla ndrangheta. In questi anni invece la “politica” s’è adagiata supinamente su alcuni PM o sui vertici delle forze dell’ordine. Che vanno rispettati ma che non possono guidare un fronte di lotta che richiede interventi complessivi; per essere più chiaro: la questione sociale che è aperta al Sud non può essere ridotta a semplice questione criminale e non può essere trattata come tale».
La presenza di un sistema non elettivo che giova della situazione attuale diventa sempre più spaventosa e reale man mano che si avanza nella lettura, ed è formata dalle stesse personalità che – in teoria – si adoperano per lo smantellamento delle cosche. Lei la chiama “falsa antimafia”. Ma come possiamo distinguerla da quella vera e (af)fidarci ancora ad essa? Che alternative abbiamo?
«In questi anni la ‘ndrangheta è stata un dramma per il popolo calabrese, una lebbra che ci ha fatto tanto male. Contemporaneamente, è stata un alibi per le classi dirigenti nazionali per giustificare la mancata risoluzione della “questione meridionale”. Il nostro popolo è stato cinicamente diffamato! Ed in tale opera di diffamazione calcolata, un ruolo importante hanno avuto i rappresentanti di ristretti gruppi appartenenti alle classi dirigenti meridionali: politici, magistrati, alta burocrazia. Soprattutto i poteri non elettivi. Alcune vicende politico-giudiziarie dimostrano chi realmente comanda in Calabria, penso per esempio al fatto che il commissario alla sanità, il generale Cottarelli, nel momento di insediarsi ha ritenuto suo dovere farsi ricevere dal procuratore di Catanzaro. Uno stravolgimento della democrazia. Quello che è certo è che lalotta alla ‘ndrangheta non avrebbe (e non ha) bisogno di eroi o di sceriffi. Innanzitutto a tutela di quanti si assumono tale ruolo spesso in buona fede altre volte per vanità, qualche volta per bramosia di fama e di potere. E poi perché un fenomeno così complesso necessita di una strategia d’insieme che oggi manca. Anzi, è stata messa in campo una strategia fallimentare iniziando dalle carceri – che spesso sono trasformate in scuole quadri per delinquenti professionali – e finendo ad alcune procure che applicano la giustizia sommaria con retate clamorose quante inutili e che colpiscono molti più innocenti che colpevoli. (Per esempio le operazioni “Marine” o “Stilaro”). Tale strategia rafforza la ndrangheta e compromette seriamente l’immagine della Calabria».
Lei afferma che “il giorno in cui gli scarti si trasformeranno in ribelli inizierà il cambiamento”. Quando avverrà? Cosa deve accadere (ancora) perché avvenga questo “click” nelle coscienze dei calabresi?
«Mi auguro che avvenga presto. Il dramma del popolo calabrese è duplice. Una grande percentuale dei carcerati (intorno al 90%) destinati al 41bis sono meridionali e, di questi, la gran parte sono calabresi. Grande parte delle vittime di mafia è calabrese. Non è una questione di “razza”, ma una questione sociale. Gli scarti che si trovano soprattutto tra i più emarginati o, meglio, in quelle che un tempo venivano definite le classi subalterne, finiscono tra i “fuorilegge” anche perché credono che in questa società la legalità sia una trappola per i deboli. E non hanno sempre torto! A volte scelgono la ‘ndrangheta illudendosi di essere “ribelli”. Ed invece per il 99% dei casi saranno servi tanto dei loro capi che dei loro alleati perché i poteri , quasi sempre, colludono al vertice. La politica – e purtroppo anche la “sinistra”- ha abbandonato i meno tutelati al loro destino. Penso, però, che il giorno in cui gli scarti prenderanno consapevolezza dei loro interessi (non solo materiali) incanaleranno la loro forza saldandosi in un progetto collettivo di cambiamento. Qual giorno la Calabria finirà di essere una colonia interna ed i calabresi non saranno più associati alla parola ‘ndrangheta».