Il primo parlamentare italiano ucciso per le idee che professava nella biografia di Giovanni Capurso: “La ghianda e la spiga – Giuseppe Di Vagno e le origini del Fascismo”

“Ognuno di noi è simile a quelle stelle, deve affrontare la sua solitudine specchiandosi nel riflesso altrui”.

Giovanni Capurso, dopo aver pubblicato già ‘Nessun giorno è l’ultimo’ (Curcio Editore, 2015) e ‘La vita dei pesci’ (Manni Editori, 2017), dà vita a un nuovo intenso racconto sulla nostalgia del passato, su quel sentimento forte di riscoprire le proprie radici, dopo aver abbandonato la propria terra d’origine. Nasce così, ‘Il sentiero dei figli orfani’, edito da Alter Ego.

“Giovanni Capurso, co­me nasce il suo ultimo romanzo, e quanto c’è di lei nel racconto?”

“Il motivo generatore del romanzo è la convinzione che in ognuno di noi il bene e il male coesistono confliggendo. Detto altrimenti, non esistono persone buone e cattive in assoluto. Il giovane Savino, protagonista della storia, lo scopre poco alla volta nella sua terra d’origine, un paesino della Lucania, attraverso alcuni incontri inaspettati. Passa anche dall’innocenza alla graduale comprensione della complessità di un mondo adulto che non è a sua disposizione. Questo romanzo nasce per spiegare come la realtà sia molto più complessa di quello che pensiamo. Non è a nostra disposizione. Talvolta implica la necessità dell’assurdo. In questo senso, da professore ed educatore, in me c’è la particolare attenzione ai temi etici e morali.”

 “‘Si dice che la vita sia un cammino, ma qualche volta occorre tornare sui propri passi’. Cosa significa per lei il passato? Rileggerlo in età adulta aiuta poi a comprendere meglio le scelte fatte, secondo lei?”

“Nell’ultimo paragrafo il protagonista afferma che ‘esistono corse all’indietro verso il passato’. La storia è quella di un adulto che guarda al suo passato con nostalgia dopo essersi allontanato dal luogo in cui ha vissuto durante la giovinezza per cercare la sua strada. Credo sia normale. In alcuni momenti della vita, a molti di noi capita di fermarsi, voltarsi indietro e osservare la propria esistenza sin lì vissuta come lo scorrere di fotogrammi. Una pellicola che si sviluppa attraverso ricordi, emozioni più o meno felici o tristi. Non possiamo ignorare il nostro passato. Significherebbe ignorare il come siamo arrivati ad essere quello che siamo. Si tratta invece di andare alla sua radice prendendo atto che esso è stato parte di noi, cercando di vederlo sotto una nuova luce e allo stesso tempo cercando di lavorare dando un senso al nostro presente. Rielaborare la nostra vita, chiedersi come si è giunti alle cose, è un segno di maturità.”

 “Tra i personaggi del suo romanzo c’è qualcuno a cui è più legato?”

“Beh, è difficile rispondere a questa domanda perché i personaggi che troverete in questa storia sono come tanti pezzi del mio io. Tutti i personaggi che ho creato sono parti di me come in un puzzle, non nel senso biografico, ma come proiezioni del mio io; a partire dal protagonista,

Savino, poi dal padre scontroso e autoritario e lo zio Gaetano, il più colto della famiglia, ma che in un contesto semplice di un paesino assume dei tratti bizzarri. Sono tutti personaggi in cui rivedo qualcosa di me stesso. E magari nella storia ci sarà anche qualcosa che vi ho proiettato inconsciamente.”

 “Siamo un po’ tutti figli orfani della propria terra. Quant’è forte questo tema, secondo lei, e quanto è importante riuscire a non recidere le proprie radici?”

Savino ha lasciato la sua terra d’origine, non tanto per motivi lavorativi, anche se quest’ultimo aspetto è bene presente in tanti frangenti, ma per una scelta esistenziale. Ho voluto sottolineare quest’aspetto, del­l’’essere orfani’, per spiegare come i valori da cui spesso sfuggiamo sono proprio quelli costitutivi del nostro essere. Savino, che in passato era fuggito dalle sue radici, nel momento in cui viene sopraffatto dalla tempesta del dubbio, vi trova i punti di riferimento della sua vita.”

“Cosa significa per lei scrivere?”

“Lo scrittore Patrick McGrath diceva ‘Scr­ivo per dare forma alle creazioni della mia immaginazione che altrimenti morirebbero nel silenzio e nel buio’. Mi ritrovo molto in questa espressione: scrivere per me significa dare forma alle miei idee e ai miei pensieri, che altrimenti si perderebbero nel nulla. Scrivere è et­ernizzarsi, lasciare una traccia di sé. Ma per me ha anche una funzione profondamente terapeutica: scrivendo do sfogo ai miei conflitti interiori. Guardo in faccia le mie ombre, i miei fantasmi, per sconfiggerli.”

 “C’è nel cassetto già il suo prossimo progetto?”

“Sì, ho delle storie in fase di elaborazione nella mia testa. C’è l’idea, come si suol dire. Questa fase può durare anni. Un romanzo è in stesura da un annetto, ma visti i molti impegni è difficile portarlo avanti. Poi ho un saggio su temi filosofici ed educativi in fase di revisione.”

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