Risponde alle domande di Eventi Culturali Magazine, con estrema cordialità, Massimiliano Amatucci. Lo scrittore partenopeo si è recentemente avventurato nel genere thriller, firmando l’autorialità di “In nome del Padre”, il suo più recente romanzo edito da Kairos.
“In nome del Padre” nasce di certo dai temi di attualità che, nel bene e nel male, hanno saturato i media negli ultimi anni. C’è un evento in particolare, tra questi, che l’ha ispirata per la stesura del romanzo?
«Sicuramente l’attentato che mi ha scosso di più, e che è risultato forse determinante nella spinta a scrivere questo romanzo, è quello del 13 di novembre 2015, passato alla storia per la sanguinosa strage avvenuta all’interno del Bataclan, oltre che per le bombe fatte esplodere nei pressi dello stadio di calcio e per le sparatorie e le esplosioni avvenute in altri luoghi della città.
È un evento che mi ha colpito particolarmente non solo per lo sconvolgente numero di vittime coinvolte, ma anche per il mio particolare legame con la città di Parigi.»
Interessante la scelta di accostare Napoli a Londra e Parigi, protagoniste di episodi terroristici che hanno lasciato un segno profondo nell’animo europeo. La sua è una Napoli che si sente al centro del continente, o si tratta di una scelta nata piuttosto dalla voglia dell’autore di introdurre la propria quotidianità nel contesto?
«Napoli non è la città al centro di questo romanzo, e non è il suo legame con l’Europa che mi ha spinto a parlarne. Napoli è semplicemente il luogo in cui nasce e si forma in qualche modo il protagonista, e non avrei potuto costruire una figura complessa, com’è il personaggio principale di questo romanzo, partendo da un’altra città che non fosse la mia.
Poi, è anche vero che non mi è dispiaciuto poter raccontare, anche se a margine della storia principale che attraversa il romanzo, luoghi e situazioni che mi appartengono più da vicino.»
Similmente, la “sua” Londra e la “sua” Parigi sono descritte con precisione, in modo quasi accademico. Ha un legame particolare con queste due città?
«Direi proprio di sì. Ho vissuto a Londra circa un anno e mezzo, seguendo mia moglie che ci ha lavorato come ricercatrice, quindi la conosco piuttosto bene e, pur con qualche difficoltà, non ho potuto evitare di affezionarmici. Mentre negli anni della mia adolescenza i miei genitori hanno acquistato e hanno poi posseduto a lungo un appartamento in multiproprietà a Parigi, per cui ci sono stato almeno una dozzina di settimane e me ne sono innamorato da subito.
La scelta, dunque, è ricaduta naturalmente su due città con cui ho un legame particolare, ma mi sembravano anche emblematiche del ricco mondo occidentale, oltre che, dal punto di vista pratico, ma anche simbolico, strategicamente collegate tra loro dal suggestivo tunnel che scorre sotto la Manica.»
La morale di fondo del romanzo è così dura, reale che quasi sembra non essere una morale! Al di là del rifiuto di ogni estremismo e della delineazione del “grigio” che esiste in ogni bianco e nero, quale indicazione vorrebbe dare in particolare, a un lettore, nell’interpretazione simbolica del volume?
«Spero proprio che questo romanzo, oltre a lasciare il lettore divertito da qualche ora d’evasione, lo induca a porsi qualche domanda sul come, e soprattutto sul perché, l’integralismo islamico abbia fatto negli anni tanti proseliti e sia stato così in grado di sconvolgere le nostre vite occidentali. Ci sono responsabilità che vengono spesso taciute, mentre è facile additare il diverso come nemico.
Ecco, oltre a rivendicare con forza la mia avversione a ogni forma d’integralismo, mi piacerebbe che ciascuno di noi, a prescindere dal proprio parzialissimo punto di vista, culturale, religioso, sociale, riuscisse a vedere il diverso comunque come degno di rispetto. Non si tratta di un messaggio buonista, né di sinistra, né evangelico. Basterebbe attenersi laicamente all’art. 3 della costituzione italiana per rendersene conto.
Naturalmente, non è un caso che lo scontro finale tra due visioni contrapposte del mondo avvenga, nel mio romanzo, sull’arco della fraternità, che peraltro domina la copertina del libro.»
Quanto c’è, di Massimiliano Amatucci, nell’anima dei suoi protagonisti?
«Inevitabilmente c’è molto. Nel senso che sono tutte creature generate dalla mia mente, dal mio cuore, e più in generale dalla mia fantasia e, dunque, fanno parte di me. D’altro canto nessuno dei personaggi di questo romanzo mi somiglia particolarmente, anche se forse il protagonista ha qualche aspetto in più che lo accomuna a me, soprattutto nel rendersi lucidamente conto delle conseguenze delle proprie azione e nell’affrontare le varie vicende che attraversano il romanzo con una combinazione non perfettamente bilanciata tra sensi di colpa e senso di responsabilità.»