Intervista a Maurizio Piccirilli Maurizio Piccirilli autore delle foto del ritrovamento del corpo di Aldo Moro in Via Caetani,in occasione della mostra fotografica, a quaranta anni dal ritrovamento di Aldo Moro in Via Caetani, nella prestigiosa sede del Complesso di Vicolo Valdina, fino al 16 novembre 2018. a cura di Maurizio Riccardi, Giovanni Currado.
Con quale approccio, in questa mostra, ha affrontato la difficile sfida di raccontare Moro?
“L’idea è stata quella di raccontare l’uomo politico attraverso le foto del suo percorso istituzionale come ministro, Presidente del Consiglio, leader della Dc. Sottraendo l’immagine di Moro al solo ruolo di vittima delle Brigate Rosse”.
Lei ha dichiarato: “Nel 1978 sono bastate due Polaroid a cancellare la vita di un personaggio, non di secondo piano, come Aldo Moro”. Perché?
“In questi 40 anni la figura di Moro è stata associata solo a quei 55 giorni della primavera del 1978. Prigioniero delle Brigate Rosse e da qui le Polaroid che lo ritraggono loro ostaggio e quindi vittima delle stesse nella foto che lo ritrae ormai cadavere nel cofano della Renault rossa. Basta fare un ricerca su Google e scoprire che sono queste le foto maggiormente proposte. I suoi oltre 30 anni di attività politica scomparsi, cancellati dalla memoria virtuale e quindi anche dall’immaginario collettivo dei tanti che all’epoca era giovanissimi o non ancora nati. Ecco la volontà attraverso il meraviglioso archivio Riccardi e delle foto di Carlo Riccardi raccontare l’uomo politico Aldo Moro”.
Possiamo dire, oggi, che questi scatti fotografici ci fanno anche conoscere l’uomo Moro che c’era dietro l’immagine dello statista?
“La forza del documento fotografico realizzato negli anni da Carlo Riccardi, decano dei fotoreportere romani oggi novantaduenne, è proprio questo. Ci sono foto di Moro mentre conversa con i giornalisti, parla ai congressi Dc. Durante le sedute alla Camera, alle assise sindacali, mentre giura da presidente del Consiglio nelle mani del capo dello Stato. Con il papa Paolo VI”.
Quarant’anni passati a cercare una verità, che non è ancora pienamente completa, che presenta ancora oggi, diverse zone d’ombra. Lei pensa che sia così, oppure si è già detto e scritto tutto sulla vicenda? E perché?
“Non faccio parte della schiera degli appassionati dei misteri ad ogni costo. Quegli anni li ho vissuti in prima linea grazie alla mia professione. Le Brigate Rosse hanno rapito Moro, ucciso gli uomini della scorta e ammazzato lo statista. Questi sono i fatti. Che ci siano stati errori nelle indagini, depistaggi a posteriori è probabile, ma non credo nel complotto di Stato. Certamente la volontà di sacrificare la vita di Moro era nell’interesse di molti. Dagli Stati Uniti che non amavano le apertura filo palestinesi e terzo mandiste di Moro a nemici interni nella stessa Dc che non gradivano gli accordi con Il PCI”.
Qual è stato, secondo lei, il testamento che ci ha lasciato Aldo Moro?
“Un testamento fatto di coerenza di una visione della politica alta. Di chi sa guardare avanti. Erano gli anni Sessanta quando Moro parlava di aprire all’Africa e aiutare i Paesi emergenti per evitare quello che oggi viviamo, carestie guerre e immigrazione incontrollata. La capacità di mantenere la coerenza ma essere aperti al dialogo quanto al compromesso per migliorare la governance. Il sorriso e la serietà nell’impegno istituzionale. Oggi assistiamo all’oltraggio dell’avversario come unico strumento dialettico della politica”.
Invece, tra gli scatti presenti in mostra ce n’è qualcuno a cui si sente più legato? E perché?
“Senz’altro quello di Via Caetani e il ritrovamento del corpo senza vita di Aldo Moro. Immagine unica , drammatica ma allo stesso tempo iconica perché ha ancor di più evidenziato la violenza e la pericolosità dei terroristi rossi. Nel mio intimo ho sempre pensato che quella foto abbia contribuito a creare una conoscenza nei cittadini per opporsi senza se e senza ma al terrorismo”