Pietro De Martino: essere affamati essere folli.

“L’unico modo per fare un ottimo lavoro è amare quello che fate. Se non avete trovato ciò che fa per voi, continuate a cercare”.
Così sosteneva Steve Jobs, grande imprenditore informatico statunitense, sul concetto di lavoro, lavoro, come affermazione e come sigillo della nostra personalità; amare quello che si fa, lavorare per ciò in cui si  crede, e ogni giorno regalare al nostro lavoro parte di noi, è ciò che differenzia molte persone, e gli fa dare  oltre l’appellativo di lavoratori, quello di lavoratori appassionati e innamorati del loro mestiere.
Nascere in una regione come la Campania, a Sorrento, e frequentare l’istituto alberghiero a Vico Equense, traccia già un percorso, segna una rotta e motiva lo spirito accelerando il suo destino: nativo di Sorrento e diplomatosi alla scuola alberghiera con indosso la sua divisa da uomo e da professionista è Pietro De Martino. Pietro, sapeva sin da subito quello che sarebbe stato il suo futuro, perchè il passato prima e il presente dopo, aveva urlato quello che lui sarebbe divenuto ovvero un valido Chef.
Lavorare con nomi quali Moreno Cedroni, Mauro Colagreco e Antonino Cannavacciuolo, fanno sin da subito capire a Pietro cosa vuol dire essere uno chef con C maiuscola, toccare con mano cucina di nomi stellati, entrare in una dinamica gerarchica, ascoltare il suono di padelle e tegami sapendo che quei suoni sarebbero stati sempre i suoi consiglieri ad un operato, che come in un piatto, si riempiva dei primi ingredienti. I primi ingredienti che Pietro ha disegnato sul piatto della sua carriera, recano i nomi di umiltà e perseveranza, sin da piccolo infatti amava cucinare per il piacere di farlo, per strappare un sorriso, e per regalare un’emozione. Questi colori l’hanno accompagnato in tutto il suo iter professionale, nelle sue esperienze e nei suoi incontri, nei suoi lavori in Italia e all’estero, con i suoi maestri uno fra tutti Antonino Cannavacciuolo, che gli ha dato l’ardore, e il fuoco vitale che ogni giovane ragazzo deve avere per intraprendere un mestiere, faticoso ma gratificante come quello da chef. In lui come negli altri maestri, ha appreso il rispetto della materia prima, l’amore per la terra,  l’aver fame assoluta di imparare anche sbagliando e di voler e poter fare; Pietro è oggi un giovane ragazzo, ma uomo, un uomo, che vuole lasciare un impronta di sè affidando a quel piatto della sua infanzia dove ha messo i  primi colori , tonalità ora accese, vivaci e passionali del suo essere di oggi. Il piatto di oggi della vita di Pietro, è un piatto che ricalca la sua cucina minimale essenziale, che ha in sè il ricordo del passato, un materiale antico, e poi esplode nella creatività moderna e contemporanea, un piatto che guarda alle antiche cucine ma le sposa con tecniche moderne, un piatto che pennella colori della terra ma li fa vibrare con i colori del suo ingegno. Il risultato che ne deriva è unico, fantastico, è una cucina che non dimentica, che  non scarta nulla, che abbraccia tutto, e che anche in una parmigiana di melanzane riecheggia gli insegnamenti della nonna e della mamma, ma ascolta anche le sue mani e il suo credo. Nulla viene tralasciato o gettato, ogni singolo ingrediente merita rispetto, ogni materia prima va esaltata e resa una primula particolare, degna di attenzione e accarezzata, per poi risuonare con altri ingredienti in un piatto che racconta e descrive. Pietro oggi ha affidato a quel piatto semplice del suo essere, e del suo passato tutto il suo colore, tutto il suo futuro e tutto ciò che lui concepisce nell’essere Chef, ovvero essere uomini, essere veri, ed essere instancabilmente sognatori.

 

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