QUALE SIGNIFICATO ATTRIBUIRE ALLA PAROLA “MODERNITÀ? STEFANO SCIACCA, SCRITTORE E STUDIOSO, CE NE PARLA ATTRAVERSO LA SUA OPERA SIR WILLIAM SHAKESPEARE, BUFFONE E PROFETA
Di Francesca Ghezzani
Sir William Shakespeare, buffone e profeta, il libro dello scrittore e studioso Stefano Sciacca apprezzato anche dalla più autorevole critica shakespeariana internazionale, è un testo sulla Modernità o, meglio, un esercizio sul significato da attribuire a questa parola.
Stefano, perché il celeberrimo drammaturgo inglese William Shakespeare si è “guadagnato” gli appellativi di buffone e profeta?
La spiegazione risiede, se così posso dire, nel terzo attributo di Shakespeare espresso dal titolo del libro. Un attributo al quale, infatti, ho volutamente assegnato la priorità. Si tratta di quella dignità di Sir inseguita, a lungo e con ostinazione, dal drammaturgo.
L’ambizione di William invero riguardò l’affermazione sociale ben prima di quella artistica e l’ossessione con la quale egli si dedicò al perseguimento di questo tipo di successo, lo rese addirittura ridicolo. Non soltanto agli occhi altrui ma soprattutto ai propri. Del resto, Shakespeare era dotato di grande umorismo, anzi fu egli stesso un’incarnazione dell’umorismo inteso quale poetica dei contrari, tragico e comico. E l’insistente ricorrenza nelle sue opere della figura del buffone, capace di presagire le peggiori sventure, è un sintomo autobiografico della dimensione umana dello stesso autore.
Dunque, Shakespeare si fece beffe di sé e della società in cui visse, della quale disapprovava molti aspetti ma dalle cui mode non poté comunque mai affrancarsi.
Ed ecco che in questa sua esperienza di intellettuale in conflitto con le regole sociali imposte dall’élite economica e culturale della propria epoca si sostanziò la profezia di quanto io definisco la “tragedia moderna dell’artista”.
Chi erano e chi sono gli artisti e gli intellettuali di un tempo e di oggi? Che ruolo svolgono o, almeno, dovrebbero svolgere?
Intellettuale è colui che segue la propria vocazione creativa anziché la moda commerciale. Chi pensa e crea per condividere e dialogare e non per scalare le classifiche di vendita, guadagnare e apparire. Chi lo fa con il proposito e la necessità di essere, insomma, piuttosto che per avere.
La tragedia moderna dell’artista si compie nel momento in cui, tramontato il sistema del mecenatismo cortigiano, l’intellettuale deve divenire imprenditore di se stesso e scendere a compromessi con la logica del commercio. Nel momento in cui, cioè, la libertà del pensiero creativo fronteggia le regole, tipicamente borghesi, dell’utilità e del profitto.
Ciò ha indotto molti artisti a divenire servitori della moda, partecipando al culto dell’attualità nel quale si sostanzia la Modernità, intesa etimologicamente quale atteggiamento di rifiuto nei confronti della tradizione e di supina celebrazione del presente.
L’intellettuale autentico, esponente di una specie in via di estinzione, non si preoccupa di risultare inattuale, vale a dire scomodo e inviso, o di passare inosservato ai propri contemporanei e, in particolare, alla minoranza di loro che detiene ed esercitare un potere di controllo sulla maggioranza.
In questo senso, la riscoperta della poetica di Shakespeare condotta attraverso il mio testo è un inno alla filosofia del buffone, quale elemento distintivo dell’intellettuale irriducibilmente indipendente. La filosofia che consente ai suoi interpreti di continuare a esprimersi anche quando sarà passata la moda del tempo, di donare alle generazioni future almeno nella medesima misura in cui si è tratto da quelle passate, di affermarsi come autentici classici.
A proposito di autentici classici, come hai scelto nomi del calibro di Shakespeare, Dante, Balzac, Nietzsche e molti altri ancora per indagare la loro posizione in relazione alla società?
In realtà, non li ho scelti ma mi ci sono imbattuto. Ed è stato un incontro rivelatore.
Se avessi dovuto mettermi a cercare, probabilmente, non mi sarei mai spinto tanto lontano nel tempo e nello spazio, passando da Seneca e Lucrezio a Dostoevskij e Pirandello. Ma la verità è che questa pubblicazione è solo il punto di partenza per una ricerca che potrebbe impegnarmi tutta la vita: non esistono una bibliografia o un indice analitico che possano considerarsi definitivi e completi. In ogni epoca, specialmente allorché il rispetto della tradizione è stato travolto dall’adorazione della novità, si possono scoprire tracce del dissenso manifestato dagli intellettuali autentici nei confronti del potere e della moda da questo imposta. E ciò è avvenuto in luoghi diversi e molto lontani l’uno dall’altro.
Perciò ritengo che l’individuazione di intersezioni, talvolta insospettabili, nella poetica di artisti, intellettuali e pensatori assai distanti tra loro costituisca appunto il principale obiettivo di Sir William Shakespeare, buffone e profeta e un proposito che continua a stimolare e guidare i miei studi.
La Modernità borghese è quindi da intendere come atteggiamento anziché come epoca?
Nella prefazione alla versione inglese del testo ho cercato di chiarire il concetto di Modernità al quale avrei fatto riferimento nel corso della mia trattazione.
«Modernità» è innanzitutto una parola e nulla rischia di trarci in inganno quanto il significato delle parole, come già ci avvertiva Pirandello in Sei personaggi in cerca d’autore.
Anche volendosi illudere che i dizionari possano escludere qualunque pericolo di fraintendimento legato all’esperienza soggettiva, resta comunque un fatto che alcune parole hanno subito un’evoluzione tale per cui hanno assunto nel tempo significati diversi, talvolta persino antitetici.
Nel corso del XIX secolo l’aggettivo «moderno» è stato oggetto di una battaglia più politica che semantica all’esito della quale si è imposto il significato (avvertito positivamente) di distintività rispetto alla tradizione, come attesta anche l’Oxford dictionary che prevede innanzitutto le seguenti definizioni: «of the present time or recent times»; «new and intended to be different from traditional styles».
Tuttavia, lo stesso dizionario contempla un’ulteriore e differente accezione: «new and not always accepted by most members of society».
Dunque, il medesimo aggettivo può, anziché conferire al nome al quale si accompagna il senso di aggiornato ai tempi correnti (in aperta antitesi con il passato), individuare una forma di novità più esasperata, al punto da risultare inattuale e sgradita ed essere avvertita come pericolosa e sovversiva.
Un significato certamente coerente con le istanze di rinnovamento antiborghese espresse da Rimbaud nella celebre esortazione contenuta in Una stagione all’inferno. Tuttavia nel corso del XIX secolo, da grido rivoluzionario delle avanguardie, la Modernità è divenuta imperativo categorico della borghesia reazionaria, nell’ottica della quale “moderno” è migliore di “passato”, il presente basta a se stesso e, soprattutto, qualunque futuro alternativo spaventa e va evitato.
Questa avversione per il cambiamento nel sistema socio-economico e la conseguente adorazione dello status quo, trasfuse nel concetto ormai prevalente di Modernità, sono perfettamente spiegate da Dostoevskij nelle sue Note invernali su impressioni estive, allorché l’intellettuale russo commentò la condizione psichica tipica del borghese francese di metà Ottocento: nonostante l’indiscusso successo raggiunto, costui rischiava di soffrire tremendamente non appena avesse smesso di contemplare la propria condizione presente. Il borghese, infatti, si vergogna del proprio passato – allorché non aveva nulla – ed è terrorizzato dal futuro, in cui potrebbe perdere tutto.
Questa sofferenza e questo terrore sono divenuti, con il tempo, persino patologici. Ed eccoci così alla «malattia della Modernità».
Insoddisfazione, tormento, dolore, disillusione… sembra di capire che l’uomo moderno di fatto è mercificato e ridotto in schiavitù, o sbaglio?
L’atteggiamento moderno è un atteggiamento innanzitutto economico. Perciò ritengo che si possa istituire un fondato parallelismo tra la Modernità e l’ideologia borghese, incentrata sul calcolo e ispirata ai principi dell’utilità e del profitto.
A mio parere l’impulso decisivo a questo atteggiamento si ravvisa nelle rivendicazioni tipiche dell’età comunale, dal 1000 d.c. in poi. Allora, spinto da interessi economici propri, specifici e avversi rispetto a quelli del latifondo circostante, il borgo si affrancò dalla campagna, dando origine alla vera e propria borghesia, il cui legame con il centro urbano dei commerci è attestato dall’etimologia stessa della parola.
Tuttavia, tracce del binomio modernità-impresa economica si ravvisano già nella società greca del VII secolo a.c., allorché oggetto della celebrazione poetica non erano più le gesta guerresche ispirate ai valori omerico-aristocratici, ma la fatica e l’intraprendenza del lavoro libero decantate da Esiodo ne Le opere e i giorni.
Allora, all’eroe guerriero si sostituì l’eroe imprenditore, il quale adottava un atteggiamento di diffidenza e di risentimento nei confronti del tradizionale concetto di virtù, considerandolo superato e del tutto inadeguato ai propri obiettivi.
Lo stesso atteggiamento che, secoli più tardi, avrebbe portato alla condanna borghese del duello, ritenendo lo spargimento di sangue per questioni d’onore un insopportabile spreco di risorse. L’uomo è un perfetto strumento di produzione e consumo e, se c’è da sacrificarlo, è nelle miniere, nei campi, sull’altare dei macchinari delle fabbriche che Fritz Lang rappresentò come un gigantesco e sanguinario Moloch.
Da Esiodo in poi, l’uomo è votato al lavoro e al commercio più di quanto lo sia alla guerra – benché, come sostenne convincentemente il sociologo tedesco Ferdinand Tönies, la società capitalista, nella quale ogni rapporto (economico e non) è fondato sul modello della libera concorrenza, viva in uno stato di conflitto, violenza e sopraffazione latenti.
Non è sorprendente che, date simili premesse, l’uomo abbia finito per considerare i suoi simili e persino se stesso alla stregua di merci e ad attribuire a tutto e a tutti un prezzo. E questo approccio lo rende appunto schiavo della ricchezza. Della propria, perché, cronicamente affamato di nuovi acquisti, egli è destinato a non saziarsi mai e a risultare inguaribilmente insoddisfatto. E anche schiavo della ricchezza altrui, perché arrivare ad assegnare un prezzo persino a se stesso comporta che egli possa, sempre e comunque, essere comprato.
Per concludere, la Modernità presenta almeno qualche lato positivo se vissuta con l’atteggiamento giusto in sé oppure la ritieni interamente da bocciare?
Nella mia concezione della parola (e dell’idea da essa espressa) assolutamente no. Essa, in quanto culto dell’attuale, è sinonimo di oblio. Di autoreferenzialità. E un presente sordo e cieco verso il passato è destinato a non avere alcun futuro.
Affrancarsi dal passato appare, nell’atteggiamento moderno, la salutare rimozione di ogni limite tradizionale al progresso – sia esso progresso scientifico, economico, sociale o culturale. Ma appunto la rimozione del concetto stesso di limite rende il progresso incontrollato e incontrollabile. E non è un caso che, tra le peggior ossessioni inconsce della coscienza moderna, ricorra il terrore di essere soverchiati dalle proprie medesime scoperte.
L’uomo moderno è un uomo Prometeo, un uomo-titano che si ribella ai padri e ne rifiuta gli insegnamenti e le regole (ciò che gli antichi romani chiamavano mos maiorum e che già Catone e Seneca rimpiangevano di fronte alla deriva moderna dell’epoca classica, l’irreversibile passaggio dalla austerità e morigeratezza dell’antica Repubblica agli sfrenati e dissennati vizi del Principato).
L’uomo moderno abbandona le tradizioni (ciò che, etimologicamente, è «oggetto di passaggio tra» una generazione e l’altra) considerandole un’insopportabile e inefficiente zavorra per le proprie illimitate ambizioni e si ritrova così, in questa illimitatezza, privo di riferimenti e di misure.
L’uomo moderno è immodesto e smodato, si ritiene al di sopra della natura che sfida e offende di continuo, salvo rischiare di incorrere nella sventura del dottor Frankenstein. Lo scienziato che Mary Shelley, nel sottotitolo del capolavoro romantico, definì non causalmente un «moderno Prometeo».
Ebbene, sappiamo tutti quale fine ha fatto il suo esperimento. Quale fine rischia di fare la nostra Modernità.