Quando si è figli di famiglie indigenti che vivono in contesti a rischio, fatte di genitori anaffettivi e spesso violenti, i bisogni di ricchezza come mezzo di riscatto sociale e di emergere in qualità di leader diventano necessità, prima che aspirazioni. È così che alcuni bambini, nel loro percorso di crescita, decidono di diventare “professionisti del malaffare”. Così li definisce Simona Pino d’Astore nel suo libro d’esordio come autrice, “Cuorineri – Il direttore”, inserito nella collana Balckline della Graus Edizioni.
Un romanzo/inchiesta, ispirato a fatti realmente accaduti, ambientati in una Brindisi deturpata dal contrabbando, dallo spaccio e dalla corruzione. Qui s’intrecciano le vicende di Franco Altavilla (detto “14”), Luigi Narcisi (detto “Il Pazzo”) e Luigi Patisso (detto, appunto, “Il Direttore”). Tre bambini divenuti adulti seguendo una strada sbagliata, tre nomi reali, tre storie vere segnate da rapine, omicidi, reati scontati in carcere per conto di una criminalità organizzata che sembra essere l’unica strada da percorrere per questi personaggi, figure portanti nella trama.
Ma da dove nasce l’esigenza dell’autrice di scrivere questo tipo di libro? Quando si affrontano temi del genere non si vogliono soltanto raccontare storie, spesso si vuole anche lanciare un messaggio, non per giustificare, ma almeno per provare a capire: «Il mio non è né un romanzo né un’inchiesta giornalistica – ci spiega la scrittrice – È qualcosa a metà tra un libro-verità (sottolineato dalla presenza di tre personaggi veri) e un racconto, ispirato a storie ugualmente reali, ma intrecciate ad un pizzico di fantasia. È stato volutamente realizzato per raccontare la terribile storia di un territorio, analoga a quella di altri in Italia, con dei risvolti differenti da quelli soliti della malavita, spesso incastonati in stereotipi ormai superati. Il messaggio di “Cuorineri” va ben oltre, verso un obiettivo di recupero delle coscienze e una speranza di rinascita per chi ha vissuto nel male e per chi, quel male, ha finto di non vederlo».
Simona Pino D’Astore è stata una giornalista. Perché, dunque, scegliere la formula del romanzo-inchiesta invece dell’inchiesta giornalistica pura e aggiungere elementi di fiction a questo lavoro? «È vero che sono stata una giornalista, lavorando in diverse testate locali, ma il mio spirito libero mi ha portata a sganciarmi da un mondo in cui sentivo di non potermi esprimere pienamente e il mio romanzo ne è la chiara dimostrazione. L’ho definito “romanzo” per evitare di incorrere in accuse e cavilli giuridici e giudiziari che avrebbero solo intralciato la mia voglia di continuare a raccontare. Tutto ciò che ci leggete è vero al 99%. E se i nomi sono differenti è solo per pura semplicità di azione. Ritengo, inoltre, che spesso l’inchiesta giornalistica possa risultare al lettore fredda e lontana dal proprio modo di sentire, mentre il romanzo riesce, proprio come la fiction televisiva, a conquistare un pubblico più vasto».
Facile pensare che storie simili a quelle descritte nel libro siano innumerevoli. Ma la scelta è caduta proprio su quei tre nomi perché «Non credo al caso – continua Pino d’Astore – e penso che ci siamo scelti a vicenda. Ognuno di noi ha qualcosa in sé che condivide con l’altro, o ha qualcosa che desidererebbe avere dell’altro, pur non ammettendolo».
La specifica di un sottotitolo fa pensare a dei sequel, forse addirittura ad una trilogia. Ma il titolo, così particolare, è una sorta di neologismo: una composizione data dall’unione di sostantivo e aggettivo. Impossibile non chiedere anche il perché di questa scelta: cosa comunica questa formula che le due parole staccate, “cuori” e “neri”, non fornivano? «Siamo abituati ad usare gli hashtag e, dunque, ormai parole così colpiscono. Ma la scelta è stata fatta anche e soprattutto perché i due termini sono davvero inscindibili in questo romanzo. È come una sorte di “nome di battesimo” dei personaggi oltre ad una scelta stilistica».
Ma la Simona Pino d’Astore donna, quella che c’è dietro la penna, crede nella rieducazione carceraria o pensa che le storie di cui si è fatta portavoce siano delle eccezioni in un sistema che è destinato solo ad autoreplicarsi? «La rieducazione carceraria è un conto, la redenzione di un individuo è un altro. Le carceri,
così come sono strutturate ancora oggi, spesso non riescono a realizzare lo scopo di riabilitare un individuo. Non si può solo punire, ma si deve anche dare una speranza nel futuro, altrimenti si ottiene esattamente l’effetto contrario. Il cambiamento di vita può passare anche attraverso la rieducazione carceraria, ma è soprattutto un percorso interiore, come per tutti noi. Serve qualcuno che offra a queste persone un gancio in mezzo ad un cielo ormai oscuro. Questo libro vuole provare ad essere quel gancio».
Con questo lavoro la scrittrice non vuole giustificare chi abbia compiuto delitti e altri reati gravi, ma provare a spiegare come certi fenomeni siano necessariamente interconnessi con il loro contesto, quello della cosiddetta “società civile” presente sullo sfondo di queste storie che, spesso, prima finge di non vedere o approfitta del sistema criminale, ma poi è subito pronto ad additare i “cattivi” come tali, a giudicarli e ad isolarli: «Se dovessimo metterci a contare i cosiddetti appartenenti alla società civile, resteremmo davvero stupiti nello scoprire che sono molti meno di quelli che pensiamo. “Appartenere alla società civile” dovrebbe significare riconoscere il bene dal male, denunciare i reati e prendere le distanze da chi li commette, a priori. Spesso, invece, sia la gente comune che coloro che sono investiti da ruoli di potere a diversi livelli, non solo fingono di non sapere ed evitano di denunciare, ma addirittura trae vantaggi dal malaffare, salvo poi fingere di fronte all’opinione pubblica di essere puliti ed onesti. Del resto se non esistessero i corrotti ed i corruttibili tra la gente cosiddetta comune non esisterebbe la malavita».