“C’era qualcosa che mi piaceva fare e che, da ragazzino, in estate ripetevo ossessivamente: scendere dal mio paese, San Fele, non lontano da Potenza, fino alle cascate della fiumara del Bradanello.”
C’è qualcosa nel nostro presente che ci riporta al nostro passato, alle cose non dette, alle promesse non mantenute, ai sogni coltivati che sono rimasti lì, sospesi, mentre la vita corre e prende pieghe inaspettate.
È duro il proprio passato, con le sue ferite non ancora rimarginate, con i piccoli, grandi dolori che ti fanno crescere velocemente, con le scelte fatte che ti conducono a vite che neanche immaginavi. Ma è anche dolce, con i suoi tanti ricordi belli, che conserva gelosamente come un prezioso scrigno, tanti ricordi lievi della bella stagione che fu, quella del passaggio dalla fanciullezza spensierata all’adolescenza tumultuosa.
È questo il sentimento che muove Savino, il protagonista dell’ultimo romanzo di formazione scritto da Giovanni Capurso, e pubblicato da Alter Ego Edizioni.
‘Il sentiero dei figli orfani’ è un viaggio a ritroso del protagonista alla ricerca del Savino fanciullo, cercandolo nei luoghi dell’infanzia, nel paese natio, tra quei vicoli e piazzette che lo hanno visto crescere, e che un giorno poi, ha abbandonato.
Capurso dà vita a un racconto dell’anima, un racconto delicato e poetico, ma vivo e pulsante, un racconto che ti avvolge completamente e ti trascina in questo lembo di terra sperduto, dove la vita continua a correre placida mentre tutto il mondo intorno muta completamente.
Savino oggi è un uomo, ha fatto scelte di vita, sta costruendo il suo presente, disegnando il proprio futuro, ma lo ha fatto abbandonando la sua terra natia, sentendosi figlio orfano di quella Lucania, così bella quanto difficile, che è stato costretto a lasciare perché non offriva speranze e possibilità, perché era una gabbia che ti impediva di crescere, mentre fuori il mondo ti aspetta con le sue mille curiosità e i tanti affascinanti aspetti tutti da scoprire.
Allora il ritorno ad essa, oggi che si è più maturi, è un viaggio alla riscoperta di se stessi, con la mente che ritorna a quell’estate in cui tutto cambiò, in cui la fanciullezza spensierata lasciò il passo alle prime inquietudini dell’adolescenza.
Ritroviamo Savino quindicenne, nel suo paese natale, San Fele, un luogo “fuori dalla storia e dagli eventi”, ma che agli occhi di un bambino è tutto un mondo da scoprire e vivere.
Lui che si diverte a correre a perdifiato tra boschi e valli insieme all’amico albanese Radi, che amichevolmente chiama “l’Anguilla”, “perché gli piace nuotare nell’acqua… e poi… e poi perché è muto come i pesci”, e giocare a calcio in piazzetta, leggere fumetti e fare il bagno al fiume.
È un’estate spensierata la sua, in cui i doveri sono ancora pochi e il divertimento molto; ma non sarà un’estate come tutte le altre. Savino conoscerà il dolore della perdita di una persona cara, familiare, come sua nonna, l’euforia del primo amore provato, e la delusione perché esso non sboccerà mai; conoscerà Adamo, un tipo strano venuto a vivere al suo paese, un tizio che ha girato il mondo e si porta con sé tanti segreti, ma che gli insegnerà molte cose sulla vita,
aprendogli gli occhi e allargando il suo sguardo oltre San Fele, oltre il suo nucleo familiare, oltre quel piccolo mondo che è sempre così immutabile.
Cresce la curiosità in Savino, la voglia di conquistarsi il proprio spazio sotto l’universo, sente il desiderio di libertà che quel paesino di tremila anima non gli potrà mai dare. Ha voglia di vedere cosa c’è oltre San Fele, sente bruciare sempre più dentro di sé il desiderio di abbandonarlo, di andare via per inseguire il proprio destino.
“In quegli anni sembrava che il mondo stesse cambiando rapidamente: era caduto il Muro di Berlino e da noi si era appena conclusa la Prima Repubblica. Ma da buoni tifosi, per me e mio padre c’erano altre cose che contavano: il Milan aveva vinto la sua quarta Coppa dei Campioni contro il Benfica e i mondiali in Italia erano cominciati. Invece a San Fele il ritmo ciclico della natura resisteva a ogni cambiamento: in molti ancora si svegliavano al canto del gallo e finivano il lavoro al crepuscolo. Questo suo essere fuori dalla storia e dagli eventi, più che una maledizione, dalla gente schiva del posto veniva considerata una virtù.”
In Savino cresce sempre più la curiosità di vedere il mondo che c’è fuori, di scoprirlo; la natura lucana, prima così idilliaca e bucolica, ora gli appare anche nella sua durezza, una sensazione aspra che quasi lo soffoca.
Cresce Savino, influenzato dai suoi demoni interiori, la malinconia ereditata dal padre e il continuo dubbio, ereditato dallo zio Gaetano; cresce Savino e si lascia andare, trasportato dalla vita lontano da quel mondo fanciullo.
La sua storia è simile a quella di molti giovani della sua terra, figli orfani, costretti ad abbandonare il luogo natio per “cercare l’oro”; ragazzi che non recidono comunque, mai le radici del loro passato. E la vita ti può far fare giri immensi, trasportarti lontano, magari smetti pure di parlare il tuo dialetto, cambi abitudini, vedi realtà nuove e differenti, ma nel proprio cuore, quel passato, così dolce, così amaro, verrà serbato per sempre, e prima o poi, sentirai che è giunto il momento di fare ritorno a casa. E la vedrai con occhi nuovi, con occhi diversi, con occhi più maturi, che non cancellano il proprio vissuto, ma gli daranno colori e sfumature differenti.
“Solo ora mi rendo conto, da giovane adulto, mentre la mia vita si è incagliata come una barca in secca, di tante sfumature che da ragazzino, in quella terra di villani, tra le montagne, mi sfuggivano o mi parevano insignificanti.”
Perché il passato, “soprattutto la fanciullezza, è un po’ come un bagaglio pesante che ti trascini per tutta la vita. Talvolta ci rovisti dentro e spunta qualche frammento d’immagine scolorita.”
E allora, ritornando a esso, ti sentirai più leggero, più sollevato, più libero, perché oggi hai una maggiore consapevolezza, oggi sei più forte.
“Mi sbottono il giubbino per gustare l’aria sul petto, esponendo la camicia leggera, accetto il suo sollievo. Sì, dall’alto di questo sacro monte d’argilla sono ritornato alla mia terra che un tempo mi ha lasciato orfano.”