Il titolo del libro di Antonio De Bonis non può che far pensare alla “marea nera”, al petrolio, a una delle grandi ricchezze della Nigeria. Ricchezza e sciagura, se pensiamo ai danni ambientali che alcuni incidenti hanno provocato, alle vittime locali dell’inquinamento ambientale e del fuoco che scoppia nei vari tentativi di rubare il carburante bucando gli oleodotti, all’alto tasso di corruzione e di concentrazione dei profitti economici nelle mani di pochi.
E una miseria profonda, diffusa, soffocante, se si pensa che in questo Paese – composto da 36 Stati federati – vivono più di 195 milioni di abitanti, il 46% dei quali (quasi la metà) vive in povertà. Nel 2050 potrebbero addirittura arrivare a 370 milioni. Una povertà, come scrive De Bonis, dovuta essenzialmente a tre ragioni (p. 37):
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una forte divisione tra il nord del Paese, povero e di fede prevalentemente islamica, e il sud ricco e di fede cristiana;
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le enormi differenze tra le aree urbane e quelle rurali;
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le secolari controversie armate tra pastori e coltivatori che portano, ogni anno, all’uccisione di migliaia di persone in tutto il Paese.
Un Paese che è un caleidoscopio di etnie (250 in tutta la Nigeria), lingue, tribù, religioni, fazioni, gruppi armati e compagini settarie. Basta pensare al fenomeno di Boko Haram, nella parte Nord del Paese, a maggioranza islamica, o ai gruppi del Delta del fiume Niger, a Sud-Ovest del Paese, dove coabitano (con difficoltà!) gruppi su base etnica, settaria, di criminalità comune, insorti, rivendicazioni sociali, gang cultiste in una realtà composita di 40 gruppi tribali e un centinaio di lingue diverse. Così, più che di “mafia nigeriana”, occorre parlare di “mafie nigeriane”. Tutte basate su un misto di aperura alle più avanzate forme di business criminale e, dall’altra, dal ripiegamento e dalla chiusura di di riti ancestrali.
Nel libro di Antonio De Bonis “La cosa nera. Indagine sulla mafia nigeriana”, edito da Paesi Edizioni (Per maggiori informazioni: paesiedizioni.it) e in uscita fra pochi giorni (l’8 aprile), l’autore affronta il problema, anche dal punto di vista italiano, con focus su indagini condotte a Torino, Castel Volturno e Palermo, sull’espansione della mafia nigeriana in settori criminali e in parti dell’Italia sempre più numerose.
Il libro-inchiesta di De Bonis svela le origini della mafia nigeriana, le sue caratteristiche, le ramificazioni, l’inserimento nella globalizzazione della criminalità internazionale. E quindi anche in Italia.
Ma cosa dà forza alle organizzazioni criminali internazionali, fra le quali anche la(e) mafia(e) nigeriana(e)? In che modo la globalizzazione dei commerci e delle comunicazioni hanno favorito o, comunque, hanno creato un ambiente propizio anche ai traffici illeciti (il cosiddetto “sviluppo del crimine transanazionale”)? Secondo De Bonis, le ragioni risiedono in un’interessenza in cui è difficile scindere i diversi aspetti: “Generalmente, siamo abituati a parlare di criminalità come di un problema di ordine pubblico. Ma lo sviluppo di sistemi economici, sempre più interdipendenti per via dell’evoluzione tecnologica dei mezzi di trasporto e dei sistemi di comunicazione che hanno influito fortemente sui commerci e sul mercato finanziario globale, ha alterato radicalmente la natura stessa della criminalità, finendo per assegnarle anche un ruolo geopolitico in ragione della convergenza d’interessi – dai traffici illeciti all’opportunità di partecipare a tentativi di destabilizzazione politica – con gruppi terroristici o movimenti insurrezionali sparsi in ogni angolo del pianeta” (p. 28)
Antonio De Bonis, palermitano, nato nel 1963, si è formato nella sezione speciale anticrimine per la lotta al terrorismo del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Per trent’anni, sin dalla sua fondazione, è stato al servizio del Ros (Raggruppamento operativo speciale) dei Carabinieri, occupandosi di contrasto alla criminalità organizzata di tipo mafioso nazionale e internazionale. Oggi è consulente per attività investigative private e presidente dell’associazione Geocrime Academy per lo studio dei fenomeni criminali.
Un esperto di associazioni criminali di ogni tipo. Come la Mafia, la Camorra, la N’ndrangheta… insomma, “Cosa Nostra” potremmo dire, giocando con le parole.
La mafia nigeriana ha molte caratteristiche che la rendono comparabile con le organizzazioni che meglio conosciamo (se non altro per nome e per i maxi-processi che si sono celebrati in Italia) e tante differenze. Differenze ovvie, come quella relativa all’origine, all’organizzazione interna, al legame con la cultura e le tradizioni africane, all’appartenenza etnica e alle modalità di creazione e di mantenimento dei sodalizi criminali.
Comparabile e anche potenzialmente in contrasto se questi gruppi non raggiungono un accordo sulla spartizione degli spazi, delle attività, nella sottoscrizione di pseudo rapporti di “collaborazione” e di “specializzazione”, nella “spartizione” delle piazze e settori criminali. In questo panorama, le attività criminali della mafia nigeriana sono legate al traffico di droga, alla tratta degli esseri umani, all’induzione e allo sfruttamento della prostituzione, all’immigrazione clandestina.
Un ruolo importante ha, quando si studia un’associazione criminale straniera, la conoscenza della cultura di base; capire, dal punto di vista etnoantropologico, quali sono le leve culturali, sociali, religiose e le pratiche di vita, i rapporti individuali sui quali si fonda una società. Avere una “testimonianza” o un “interprete” di queste realtà aiuta a comprenderne i meccanismi di funzionamento e, parallelamente, di intervento per ostacolarle.
Nel caso di Antonio De Bonis, colei che gli ha fatto da mediatrice culturale è stata l’attivista nigeriana Blessing Okoedion – fondatrice dell’associazione Weavers of hope. Vittima di tratta ella stessa, condotta in Italia e costretta a prostituirsi, Blessing ha trovato non solo il coraggio di ribellarsi ai suoi aguzzini, ma la forza di denunciarli e di costituire un’associazione (Weavers of hop”, appunto, “Tessitrici di Speranza”) per aiutare altre ragazze a liberarsi da questa trappola sessuale. “Arrivata a Castel Volturno”, ricorda Blessing “mi è stato detto che per fare quel viaggio avevo contratto un debito di 65 mila euro. E che l’unico modo per saldarlo, visto che di altri lavori non ce n’erano, era di andare in strada e prostituirsi. In strada ci sono stata solo pochi giorni. Mi sentivo morta, non era assolutamente la vita che volevo fare” (prefazione al testo).
Le parole di Blessing, la sua testimonianza personale, mettono in luce un altro aspetto che aiuta a mantenere vivo il fenomeno della tratta di ragazze e donne africane in Italia e in Europa: la convinzione locale che, per fare soldi rapidamente, molte donne sono partite dalla Nigeria ben sapendo quale fosse il loro destino (un po’ “se la sono cercata” diremmo noi!) e, quando riescono a tornare nei loro Paesi, dopo le violenze subite, incontrano una sorta di noncuranza da parte delle comunità di appartenenza. Dall’altro lato, in Italia e in Europa, sembra che vi sia una sorta di tacita indifferenza verso l’approfondimento di questo argomento (troppo “scomodo”? troppo “divisivo”?) e il tentativo veicolare il concetto “sex work is work”, come una sorta di “negazionismo” del business della tratta di donne e bambini e del tornaconto che alcuni traggono dalla presenza della prostituzione. D’altra parte, è chiaro che se l’”offerta” cresce e le organizzazioni criminali ne traggono appetibili profitti, significa che anche la “domanda” è alta. Su questo aspetto c’è da interrogarsi. Infatti, si chiamano “reati senza vittima”: nel senso che vi è “assenza di vittimizzazione” in chi compra, perché lo sceglie liberamente.
E, come emerge dal testo di De Bonis, “la cosa nera” è una delle più pericolose organizzazioni criminali al mondo, che tiene in pugno, tra codici e stregonerie (il juju), il traffico di droga, la tratta di esseri umani, l’induzione e lo sfruttamento della prostituzione, molte persone e molti adepti. Un intreccio di confraternite studentesche (maschili), credenze religiose locali e tradizionali, condizionamenti psicologici, magia nera, superstizione locale, legami di sangue e pratiche sanguinose per creare affiliazione, dipendenza, inscindibilità dei legami, controllo sociale. La loro forza poggia sulla violenza fisica e la brutalità (compresi i sacrifici umani), ma anche sulla connivenza di stregoni, fattucchiere e «uomini di chiesa» che con i loro malefici sottomettono migliaia di ragazze nigeriane. Una commistione senza fine fra sangue e fede.
In Italia, la sua presenza è all’attenzione delle forze investigative e della magistratura a partire dal 2005 (Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza, presentata in parlamento dall’Aisi, l’Agenzia informazioni e sicurezza interna), Ci sono stati processi, condanne, testimonianze, “pentiti e pentite” e il fenomeno è al vaglio, ma la sua estensione non è ancora stata ben definita rispetto alla sua pericolosità.
L’organizzazione criminale, come detto, tiene in pugno il traffico di droga, la tratta di esseri umani e il business della prostituzione tra l’Africa Sub-sahariana e l’Europa. Nel libro sono elencati gli affari illeciti gestiti dai due principali sodalizi dell’organizzazioni transnazionali, “The Supreme Eye Confraternity” e “The Black Axe Confraternity”, le cui strutture e riti iniziatici ricalcano i modus operandi delle mafie nostrane.
Ma come mai è così difficile intervenire nella repressione di questa, così come delle altre organizzazioni mafiose? De Bonis indica tre ragioni: “(…) nonostante l’evoluzione criminale della mafia nigeriana in Italia, difficilmente gli apparati di sicurezza del nostro Paese riescono a mettere a punto mirate ed efficaci strategie di contrasto, essenzialmente per tre motivi. Il primo motivo, 17 oggettivo, è che questo fenomeno, e più in generale il macro fenomeno della mafia, risponde alla domanda generata dal mercato, il che significa che le varie forme di contrabbando (traffici di droghe, armi e merci contraffatte, prostituzione) sono in sostanza «reati senza vittima» in ragione della libera volontà di scelta degli acquirenti. Il secondo motivo è di carattere finanziario: gli enormi flussi di capitale, generati dalle mafie attraverso le attività illecite che controllano, rappresentano a tutti gli effetti una cospicua porzione dell’architettura economica mondiale. Il terzo motivo, infine, è strumentale, in quanto le mafie sono considerate da parte delle strutture di potere informale un valido asset a cui ricorrere per la gestione dei rispettivi interessi particolari (pp. 16-17).
È il cosiddetto “peccato originale criminale”, quel legame inconfessabile che lega poteri ed enti governativi e locali a questi gruppi criminali nati, storicamente, dalle confraternite universitarie per ben altre finalità. Come scrive l’autore, “D’altronde, è noto che quando il potere – nelle sue varie forme economica, politica, finanziaria e bancaria – chiede alla criminalità aiuto per raggiungere i propri scopi, in quel preciso momento nascono le mafie, destinate altrimenti a essere mere manifestazioni di criminalità, anche organizzata, ma prive di coperture di alto livello e, pertanto, scarsamente resilienti. Ogni mafia può essere facilmente sconfitta a patto che lo Stato si ponga come obiettivo reale quello di combatterla. Nel momento in cui uno Stato non riesce a sconfiggere una mafia, è allora evidente che è un qualche interesse a tenerla in vita per continuare a servirsene” (p. 61).
Ecco. Un libro che semplicemente “deve” essere letto, per capire molti fenomeni che convivono con noi e conoscerne genesi, modalità, evoluzioni ….e involuzioni.