“Nelle nostre normali giornate fatte di lavoro, famiglia, impegni, amici e tanto altro, spesso ci imbattiamo nell’‘immigrazione’ o in una delle sue tante sfaccettature: immigrati, vù cumprà, stranieri ormai ovunque che ci domandano qualcosa, bambini figli di immigrati, sporchi e poco vestiti, sfruttati per strada o compagni di banco e di gioco dei nostri figli, colleghi di lavoro, vicini di casa, eccetera; e potremmo ormai fare numerosi altri esempi di questi contatti, positivi o negativi che siano, parte innegabile del nostro quotidiano”.
Tema spinoso questo dell’immigrazione, argomento urticante quello dell’accoglienza, oggi ancor di più, che siamo bombardati da notizie sempre più allarmistiche, dai media, dalla cronaca, o attraverso gli slogan politici.
Si parla d’immigrazione e ci raccontano di un’invasione in atto, vediamo volti di migranti in fuga dalle loro terre, stanchi, spossati, disperati, dopo giorni e giorni di navigazione in mare su barconi di fortuna, e ci si stringe il cuore; lì vediamo, poi, ciondolanti, in mezzo alle nostre strade, o sfruttati dai caporali, o in attesa di un futuro che non arriva, mentre si arrangiano come possono, e tanti sentimenti contrastanti ci pervadono: pietismo e rabbia, allargare le braccia per accoglierli o per respingerli, viviamo così, sempre più confusi, di fronte a questi drammi umani, a queste tragedie personali.
“Ecco, capita così che in tanti nostri giorni, mentre soffiamo sul cucchiaio prima di portarci la minestra alla bocca, alla televisione crude immagini e tante parole di triste consuetudine ci scorrano davanti e dentro, infastidendoci appena senza che niente ci tocchi realmente”.
E dimentichiamo così, che queste sono persone, prima che numeri statistici, sono esseri umani prima che un problema da risolvere, oramai sempre più condizionati dalle narrazioni che fanno “la nostra società, i mezzi di informazione, la nostra stessa cultura o le esperienze personali”.
Lucio Simonato prova a ribaltare tali paradigmi attraverso un intelligente ed interessante saggio, pubblicato da Edizioni Cleup, “Con i loro occhi, con la loro voce”, proprio per “parlare di immigrazione in modo diverso”, com’è scritto nel sottotitolo del saggio stesso.
“Io non sono certo a dire che si tratta di persone migliori o peggiori di noi, né buone o cattive, né belle o brutte e basta, ma sono ciò che veramente sono, persone, uomini e donne che la vita ha condotto sulla nostra strada in questo stesso nostro mondo”.
Persone che andrebbero ascoltate prima di giudicarle, persone che andrebbero comprese prima di considerarle come un problema da risolvere; perché queste sono persone che hanno comunque tanto da raccontare di sé, dei loro sogni, dei loro drammi, delle loro difficoltà quotidiane, e cercano comunque una voce amica, con cui relazionarsi, con cui confrontarsi, semplicemente per farsi conoscere un po’ meglio, e ben oltre ogni stereotipo.
“Con questo mio libro vorrei parlare di immigrazione e di immigrati in modo diverso, dal loro punto di vista. Dato che non mi sarebbe stato fisicamente possibile entrare nell’altro, vedere con i suoi occhi e vivere nella sua pelle la condizione di straniero nel nostro Paese, ho pensato di utilizzare uno strumento reputato relativamente semplice, l’intervista diretta condotta personalmente, per farmi raccontare da persone immigrate la loro esperienza, uno scorcio, un ricordo, o quello che avessero desiderato”.
E proprio qui sta l’originalità, e la profondità, del saggio scritto da Simonato; non un testo empirico, non un saggio statistico sul fenomeno migratorio, “Con i loro occhi, con la loro voce” non vuole entrare nella lunga ed articolata letteratura su tale argomento, portando avanti un’analisi scientifica, una tesi, avvalorata da dati e numeri incontrovertibili.
Esso, piuttosto, “vorrebbe semplicemente innescare un pensiero, dare occasione al lettore di riflettere”.
Di capire chi è l’altro diverso da noi, di capire le sue difficoltà, le sue preoccupazioni, i suoi sogni, le sue speranze, di ascoltare il suo racconto di vita, di considerarlo finalmente un essere umano, proprio come noi, e non un semplice freddo numero di un’indagine statistica.
Simonato cambia anche il metodo d’indagine, puntando sulla qualità piuttosto che sulla quantità degli intervistati, proprio per non voler rappresentare il fenomeno nella sua complessità, ma piuttosto nella sua umanità; e per questo le interviste, garantite dall’anonimato, non prevedono domande standard, rigide, legate a prestabiliti format d’indagine, ma sono un libero fluire di voci e parole, di pensieri e idee, donando così, dignità alla persona intervistata, facendola entrare in una dimensione più umana, che l’avvicini maggiormente anche al lettore stesso.
Simonato, e attraverso lui, il suo saggio, diventa così, un ponte di dialogo, sincero ed autentico, che aiuta tutti noi, a vedere l’altro per ciò che è, e non semplicemente come una persona diversa da noi, di cui restare indifferenti, di cui aver paura, arroccandoci nei propri pregiudizi.
“Non è facile scrivere riguardo a questi temi in modo nuovo, che possa destare interesse, né facile è l’accezione che vorrei proporre al lettore, ma mi piacerebbe offrire un punto di vista diverso che non fosse il mio o il nostro fondato sulle conoscenze, sul sentito dire o su storici pregiudizi di cui bene o male siamo zeppi, ma ce ne parlasse ‘con i loro occhi, con la loro voce’”.
Sono le storie della marocchina Malika, dei bengalesi Mohammad, Islam, Ahanonu, Ifaz, Abdul e sua moglie Selina, dei nigeriani Joseph, Faruk e Aminah, dei ganesi Kwabena e Asamoah Kwasi, della georgiana Elena, rifugiata politica, dell’algerino Khalil, di Khatun, una giovane donna del Bangladesh, di Liu Yi, una donna cinese che in Italia gestisce il suo ristorante con il marito, di Said, che parla “un allegro mix di dialetto e italiano”, del rumeno Lucian Petrescu, di Salif Bassou, poeta, fotografo e video documentarista, nato nel Burkina Faso, di Giorgio che viene dal Kurdistan iracheno, del marocchino Sarcawi, “un vù cumprà che gira tra gli ombrelloni delle nostre spiagge”, della ganese Tawiah, che fa la prostituta qui in Italia per vivere, della ucraina Aleksandra, e di sua figlia Kristina, dei tunisini Yassine e Bechir, degli albanesi Ridvan, Ilir e sua moglie Anila, e di Sanja, che viene dalla Bosnia Erzegovina.
Sono i racconti di persone comuni, di gente normale, di uomini e donne diversi per razza, cultura, età, che Simonato già conosceva, più o meno, di vista, o che ha incontrato per caso, in strada, al parco, in un bar.
Trentadue racconti intensi e veri, che l’autore ha trascritto fedelmente, riportando errori linguistici, pause di sospensione, stati d’animo, difficoltà nell’esprimersi; racconti sinceri, che non vogliono rappresentare un’analisi del fenomeno migratorio, ma regalarci uno spaccato autentico di chi vive ogni giorno, le innumerevoli difficoltà di sentirsi straniero, i loro sogni, i loro disagi, le loro speranze, la loro umanità.
“Avrei potuto scrivere chiaramente il mio pensiero, e trarre direttamente alcune conclusioni, invece mi è parso più utile e più bello lasciare che fosse il lettore a interrogarsi (se vorrà) sugli argomenti, sui pensieri e sulle parole che ho riferito delle persone intervistate. Non ho voluto romanzare, arricchire o esaltare, né ho cercato di approfittare delle loro parole per fare chissà quali discorsi”.
E in queste storie, ritroviamo molti tratti comuni, come la speranza di un futuro migliore, abbandonando casa, famiglia, la propria terra, per cercarlo altrove, sapendo che difficilmente, comunque, ci sarà la possibilità di tornare, un giorno, a casa; come l’illusione di una terra promessa che si dimostrerà, invece, più matrigna che madre, e l’inganno sarà cocente e duro, poi, da affrontare; e, per alcuni di loro, l’Italia è solo una meta di transito, non quella definitiva; molti di loro la lasceranno per continuare il loro cammino migratorio, cercando quel futuro migliore che li attende da qualche parte.
Ed è comune anche il perché della scelta di giungere qui: spesso la presenza di un parente, un amico, un compaesano, già qui in Italia, è stato il loro primo approdo, per poi proseguire il proprio viaggio personale, inseguendo un lavoro, magari regolare, ed una casa dove dormire e vivere.
Ed ecco le difficoltà iniziali, che per alcuni sono tuttora insormontabili: la lingua, innanzitutto, le usanze culturali, e poi, quella altrui diffidenza che sembra accompagnarli sempre, e la burocrazia, così difficile da comprendere, per ottenere un permesso di soggiorno, per far valere i propri diritti, o per ricongiungere la propria famiglia.
Dai racconti appare evidente come la lingua sia spesso un muro invalicabile per interagire con l’altro e per integrarsi completamente; molti di loro preferiscono vivere protetti dentro la propria comunità, tra connazionali, piuttosto che relazionarsi con gli italiani, e, di contro, la diffidenza e certi pregiudizi nostri non agevolano per nulla, di fatto, questa integrazione.
Così come per alcune donne, che hanno seguito qui il proprio marito, la loro vita sociale è pressoché nulla; restano in casa, si occupano della famiglia, dei figli, ma hanno scarse relazioni con il tessuto sociale che le circonda, proprio a causa di una lingua sconosciuta, che impedisce loro di interagire con l’altro senza difficoltà.
E nelle loro parole c’è anche tanta dignità, quella di chi ha avuto il coraggio per andar via dalla propria terra, perché lì si stava peggio, anche se poi, qui non si sta molto meglio, ma ha maggiori possibilità di realizzarsi; e il coraggio di affrontare tanti sacrifici, quotidianamente, solo con la prospettiva di dare un senso migliore alla propria esistenza.
C’è chi ce l’ha fatta, è riuscito a portare qui la propria famiglia, e i loro figli studiano nelle nostre scuole, o sono nati magari qua, e sono l’esempio più vincente di come l’integrazione sia così, più facile; e c’è chi invece, non ce l’ha fatta, è senza lavoro, o vive alla giornata, vendendo fazzoletti o strofinacci, bussando alle nostre porte, o battendo a piedi le nostre spiagge d’estate, o vendendo il proprio corpo, e si chiedono cosa riserverà loro il futuro.
E c’è in tutti loro, più o meno, quella fastidiosa sensazione di “sentirsi straniero”, che li accompagna sin dal primo giorno che han messo piede qui da noi, una sensazione che diventa un ostacolo forte nella costruzione di un ponte culturale che unisca loro a noi.
Ma c’è anche una umanità vera, fatta di sentimenti puri, dalla solitudine alla nostalgia, dal senso di fallimento alla soddisfazione personale, dall’umiliazione alla gioia, al sentirsi comunque contento per ciò che, con fatica, si ha, che caratterizzano tutto il loro individuale percorso migratorio.
Queste che Simonato ci propone sono storie intense e vere, storie che aiutano a ribaltare ogni paradigma, a cancellare ogni forma di stereotipo, a costruire, finalmente, quel ponte di dialogo culturale che avvicini esistenze differenti, ma non così lontane.
Queste raccolte da Simonato, prima che semplici storie di migrazioni, sono soprattutto storie umane, di persone che hanno solo voglia di raccontarsi finalmente, all’altro, di farsi comprendere, dando fiducia e chiedendola in cambio.
C’è “chi è arrivato in gommone, chi in nave o in aereo, chi nascosto sul fondo del camion o sul tetto, chi a piedi attraversando le montagne, chi con i soldi per un panino durante il viaggio, chi senza mangiare né bere per giorni, tutti hanno condiviso con me i ricordi delle loro esperienze. Tutte veramente uniche e degne di attenzione, forse uno strano tessuto la cui trama di fili ci racconta sogni, difficoltà, speranze, delusioni, motivazioni, e forse apre il nostro cuore a considerazioni nuove, più aperte, aiutandoci a capire un po’ di più e forse a riconsiderare l’immigrazione e l’immigrato con maggiore disponibilità”.
Perché negli occhi dello straniero di oggi, possiamo veramente ritrovare quello stesso sguardo impaurito e speranzoso, allo stesso tempo, di noi migranti, dei nostri nonni, dei nostri padri, e allora ci accorgeremmo di quanto non siano poi, così diversi da come li crediamo.
E “chi avrà la pazienza di leggere riconosca in tutti loro persone, persone che sono anagraficamente straniere ma prima di tutto sono, come noi, cittadini di questo mondo”