Il campano Massimiliano Amatucci, classe 1973, ha fatto del poliziesco la sua passione e specializzazione letteraria. Ma, con due romanzi gialli alle spalle, ha recentemente deciso di ampliare il suo armamentario e darsi al thriller, genere che sente vicino e del quale è egli stesso, in primo luogo, grande appassionato.
Alla stampa, con tanta umiltà quanta ambizione, Amatucci ha infatti dichiarato di considerare «maestri autori come Dan Brown, Robert Harris o John Grisham», mostri sacri irraggiungibili ma rispetto ai quali è fortissima la tentazione di dare il proprio meglio e cercare di avvicinarsi.
Da questo esperimento nasce In nome del Padre, l’ultimo romanzo di Amatucci. Un thriller puro e diviso a metà tra l’azione quasi cinematografica e la riflessione sociale; un volume presentato lo scorso 29 novembre a Napoli, presso la Libreria Raffaello, e già un successo per l’autore che lo ha introdotto.
Della trama, per quanto possibile, si ometterà di disquisire in questa sede: In nome del Padre è un volume che merita di essere scoperto e interiorizzato in prima persona, come a un thriller è consono. Il libro è ambientato fra Napoli, Londra e Parigi e incentrato sui temi caldi, caldissimi del terrorismo internazionale e dell’integralismo islamico, attraverso una storia personale incarnata da protagonisti ben caratterizzati e con pochi dettagli lasciati al caso.
Colpisce, infatti, la precisione storica, geografica e tecnica messa in mostra dall’autore: una piacevole novità rispetto a una scena – quella del thriller – dove troppo, troppo spesso gli autori emergenti non convincono proprio per la mancata attenzione ai dettagli. C’era il rischio che anche In nome del Padre si rivelasse l’ennesimo thriller grossolano e amatoriale, fatto quasi “a inseguire Hollywood”.
Il ritmo di lettura, in questo caso, è sì cinematografico – ed è un bene – ma, come si accennava, non è la precisione nello storytelling a risentirne. Un buon esperimento per Amatucci, che così riesce a dar prova di abilità in un genere di narrazione nel quale è facile sbagliare: o annoiando, o creando storie inverosimili, senza capo né coda.
In nome del Padre risulta invece avvincente e ben raccontato, ma – soprattutto – caratterizzato da una profondità nel contesto che supera la solita, trita e ritrita morale di fondo che inevitabilmente la fa da padrona ogni volta che si parla o si scrive di terrorismo, di scontro fra culture, di “fortezza Europa” e difesa delle radici. Amatucci si avventura in un terreno che, più che alla morale, fa capo all’etica stessa – e ne esce magicamente indenne. Si potrà dire lo stesso per gli esseri umani che, usciti dalla penna di Amatucci, gravitano attorno a questa vicenda?