È tempo di cambiamenti a Bruxelles: tra nuove nomine ed elezioni, negli scorsi giorni è stato deciso il destino dei prossimi cinque anni di policy-making in seno all’Unione Europea. Il bilancio, in ottica di influenza nazionale, tende al ribasso per il Bel Paese: tre italiani fuori, uno dentro. Sono infatti Mario Draghi, Federica Mogherini e Antonio Tajani a darsi il cambio con il subentrato David Sassoli.
L’ex presidente della BCE, che – nonostante la reputazione, soprattutto nostrana, come oscuro burocrate dell’austerity – ha sempre avuto un occhio di riguardo nei confronti di un’Italia spesso incerta con i proprio conti pubblici, lascia ora spazio a Christine Lagarde. Fino a oggi presidente del Fondo monetario internazionale, è lecito attendersi più rigore, ma non troppo, da parte della francese. Per lei parla il modo in cui è stata affrontata la situazione in Grecia, sempre alla ricerca del compromesso con l’interlocutore, ma mai oltre certi limiti.
Federica Mogherini, Alto Rappresentante per gli affari esteri, è invece sostituita da Josep Borrell: quest’ultimo, spagnolo e socialista, è stato ministro degli Esteri nella natia terra iberica. E poi, come ben noto, David Sassoli andrà direttamente a sostituire Antonio Tajani alla guida del Parlamento europeo. Con la gioia, ma non troppo, del governo di Roma: Lega e Movimento 5 Stelle hanno infatti votato contro l’elezione del politico PD, europarlamentare dal 2009 per tre legislature. Una scelta dettata più da logiche di carattere interno, che non da ragionamenti di influenza estera che sarebbero stati più appropriati nel frangente.
E dire che l’Italia avrebbe potuto ambire a qualcosa di più – non che la guida del Parlamento sia cosa da poco, s’intende. Ma il sorgere di un nuovo asse franco-tedesco risulta alquanto evidente nella formazione delle nuove leadership di BCE e Commissione: oltre alla Lagarde, Ursula von der Leyen a guidare quest’ultima. L’Italia non si è schierata con Francia e Germania, che con essa condividono il primato di Paesi più potenti e contribuenti al bilancio Ue, ma ha preferito – secondo la linea politica della Lega – schierarsi con il blocco di Visegrad, peraltro da subalterna.
Ciò ha portato a un’ostilità di fondo verso il blocco uscitone vincitore e del quale, in realtà, si sarebbe potuto far parte ad armi quasi pari: peraltro, la conferma della von der Leyen in Commissione è arrivata dopo un astuto stratagemma di Angela Merkel, che aveva inizialmente proposto una figura “dura”, legata all’austerity come Frans Timmermans, per poi sostituire l’ipotesi con la più “confortante” ministra della Difesa del suo partito.
L’Italia si è praticamente auto-isolata, volontariamente, da un processo decisionale e di leadership che, nel corso delle scorse nomine, aveva visto il nostro Paese imporre tre propri rappresentanti in ruoli chiave dell’Unione Europea. Questa volta non è andata così, e varrebbe anche la pena sottolineare come l’unica nomina a nostro favore non sia in realtà tale, ma un’elezione: vale a dire, abbiamo “vinto” solo laddove il potere di trattativa non è spettato al nostro esecutivo, ma al resto dell’Europarlamento.
L’Europa chiama, e per certi versi – sebbene Francia e Germania siano ben liete di spartirsi le nostre spoglie suicide – ancora desidera che l’Italia abbia voce in capitolo da protagonista. Risponderemo, prima o poi, all’appello?