L’Europa si sveglia fuori da un incubo, alimentato da una certa soggezione pure mediatica di fronte alla martellante propaganda populista ed euro-scettica: l’essersi lasciata tirare dentro un vortice di sovranismo, che l’avrebbe trascinata in un gorgo fino a tornare alla casella di partenza del processo d’integrazione, il cui anno zero è l’immediato dopoguerra, un continente annichilito da distruzioni e devastazioni. L’Italia ci si sveglia dentro: è l’unico grande Paese dell’Unione in cui sovranisti e ‘democrazia diretta’ sono maggioritari; e le cui forze di governo non fanno riferimento a nessuna delle grandi famiglie politiche europee che, nei prossimi cinque anni, governeranno l’integrazione. A prescindere dal mutare degli equilibri interni nazionali, il nostro Paese conta ora meno in Europa: non ha alleati che le possano essere utili e non dà riferimenti.
L’Italia e, in misura minore, la Francia si confermano il tallone d’Achille di un’Europa che, altrove, esce confortata e rafforzata nel progetto d’integrazione da queste elezioni, che profezie di cassandre annunciavano come un funerale dell’Unione. In Italia e in Francia le sirene di sovranisti e populisti, xenofobi e adepti della democrazia diretta, confermano una forte presa sull’opinione pubblica. Ma se in Italia la Lega è per la prima volta il primo partito e c’è una maggioranza assoluta sovranista – populista, in Francia, Marine Le Pen è davanti al presidente Emmanuel Macron, ma il suo partito era già stato primo cinque anni fa e aveva avuto più voti in percentuale, mentre altre forze populiste eterogenee arretrano.
Altrove, i partiti sovranisti non sono la prima forza in nessun Paese e neppure sfondano, nonostante gli annunci grancassa dell’immediata vigilia; anzi, spesso arretrano, come in Austria, o al massimo mantengono le loro posizioni, come in Germania e in Olanda, dove però si frantumano, o in Svezia e Finlandia. Nel Gruppo di Visegrad: in Polonia, è avanti il partito di governo, nazionalista, che sta con i conservatori a Strasburgo – gli europeisti lo tallonano, 44% a 38% -; e, in Ungheria, stravince Fidesz del premier Viktor Orban, che per ora sta con i popolari.
I risultati del voto britannico vanno letti a se stante, non hanno valenza europea: avranno influenza sugli sviluppi prossimi venturi della politica britannica, specie sugli equilibri interni ai grandi partiti tradizionali – i conservatori e i laburisti -, ma non sulle scelte dell’Unione. Perché la Gran Bretagna non dovrebbe più farne parte, se e quando il fantasma della Brexit si materializzerà. E, in ogni caso, il voto non è un plebiscito pro Brexit: anzi, forze molto europeiste, come liberaldemocratici e verdi, moltiplicano i suffragi e fanno partita pari con i ‘brexiteers’.
I dati sono ormai affidabili, se non definitivi. Il primo, e significativo, è l’affluenza in netto aumento nei principali Paesi europei, almeno rispetto alle precedenti elezioni europee: Francia, Germania, Spagna, dove c’è stato un vero e proprio boom. In Ungheria, alle 15, l’affluenza aveva già superato il 30%, che era stato il dato finale cinque anni or sono. Anche la partecipazione al voto vede l’Italia in controtendenza: è in lieve flessione.
Il dato di partenza era un Parlamento europeo con 221 popolari e 191 socialisti: da soli, facevano la maggioranza assoluta, 412 seggi su 751. C’erano poi 67 liberali, 50 verdi, 70 conservatori – gruppo che dovrebbe restare solido nella componente polacca, ma perdere molta forza in quella britannica. I gruppi a vario titolo euro-scettici erano l’Enf sovranista del duo Salvini – le Pen (37 seggi), quello ‘della democrazia diretta’ dei ‘Brexiteers’ e del M5S (48 seggi) e il Gue della sinistra euro-scettica (52 seggi). Una quindicina di cani sciolti completavano l’Assemblea.
Nel nuovo Parlamento europeo, secondo ripartizioni provvisorie, ma affidabili, il Ppe s’arroccherà sui 180 seggi e i socialisti sui 150. Una perdita complessiva di 80 seggi, compensata per tre quarti dalle avanzate dei liberali, che saliranno oltre i 100 seggi, forse a 107, con i francesi di En Marche e gli spagnoli di Ciudadanos, e dei Verdi, oltre i 70. Restano circa 260 seggi, un terzo del totale, che andranno però distribuiti fra vari gruppi: i conservatori vecchio stampo, che non sono europeisti, ma neppure anti-europei, e gli euro-scettici dall’estrema destra all’estrema sinistra, passando per quelli ‘della democrazia diretta’, che non hanno coesione fra di loro e che devono ancora decidere se e come aggregarsi nell’Assemblea di Strasburgo.
Si profila un quadrilatero europeista nettamente maggioritario – popolari, socialisti, liberali, verdi -, nel cui ambito sono possibili diverse maggioranze politiche. Non c’è, invece, una maggioranza popolari – conservatori con i sovranisti moderati, che qualcuno in Italia continuava a prospettare, nonostante le smentite, a nome dei popolari, di Angela Merkel.
Il quadro lo avranno più chiaro, ma non ancora definito, i leader dei 28 quando, domani, martedì 28 maggio, si riuniranno a Bruxelles per cominciare a dipanare la matassa delle nomine ai vertici delle Istituzioni comunitarie: i presidenti di Commissione europea e Consiglio europeo, il ‘ministro degli Esteri’, il presidente del Parlamento europeo e, in prospettiva, il presidente della Banca centrale europea. Un negoziato estremamente incerto, che deve tenere conto di equilibri politici, nazionali, demografici, geografici e di genere.
Ma un punto pare assodato: l’Italia ha oggi tre di quei posti chiave – una congiuntura eccezionale – e non ne avrà più nessuno. Inoltre, la sua prima scelta come commissario rischia d’essere bocciata dal Parlamento europeo, che ha il potere di farlo; e poi di ritrovarsi con un portafoglio di scarso valore.
Diamo uno sguardo ai risultati della Germania e di alcuni altri Paesi. In Germania, i partiti cardine dei due principali gruppi del Parlamento europeo, Cdu/Csu (quasi – 8%) e Spd (quasi – 12 %) non escono bene. Ma l’emorragia dei loro voti è tutta a favore dei Verdi, che quasi raddoppiano i suffragi in percentuale, strappano un milione di voti a ciascuna delle due formazioni e diventano la seconda forza politica tedesca, grazie soprattutto ai giovani fra i 18 e i 24 anni.
La Germania, che non ha la soglia, manda a Bruxelles 28 popolari, 22 verdi, 15 socialdemocratici, 10 sovranisti d’Alternativa per la Germania – l’Afd resta al di sotto del 13% datole dai sondaggi -, sei liberali, cinque della Linke che sta nel gruppo degli euroscettici di sinistra; una dozzina di seggi vanno a partiti minori – esempio: due agli animalisti, uno ai Pirati e uno ai federalisti di Volt -.
In Austria, vincono i popolari del giovane cancelliere Sebastian Kurz, che hanno ben più d’un terzo dei voti e sette seggi, davanti ai socialdemocratici in lieve flessione, ma che sono il secondo partito e mantengono i loro cinque seggi, mentre la destra xenofoba accusa il colpo dello scandalo che ha appena travolto il suo leader Heinz-Christian Strache e abbattuto l’alleanza di governo coi popolari e cala nettamente rispetto alle politiche 2017 e rispetto alle europee 2014 – tre seggi contro quattro.
In Olanda, si conferma la vittoria a sorpresa dei laburisti del candidato socialista alla presidenza della Commissione europea Frans Timmermans, davanti ai liberali del premier Mark Rutte, candidato a un ruolo europeo nel prossimo futuro, e ai cristiano-democratici. La destra sovranista e xenofoba si spacca e non avanza: complessivamente sta al 15%, ma Geert Wilders e il suo Pvv, alleati di Salvini e della Le Pen, sono drasticamente ridimensionati al 4%. In Belgio, il voto europeo è abbinato a quello nazionale, ma la vocazione europeista del Paese, che fa il record d’affluenza, oltre il 90% – il voto è obbligatorio -, non è in discussione.
In Spagna e in Portogallo, l’angolo di Europa dove la sinistra ancora vince e governa, i socialisti sono la forza di riferimento – e in Spagna la destra di Voz non va oltre i tre seggi -. Lo spagnolo Pedro Sanchez si propone come leader dei socialisti europei, in un dialogo con la Merkel, portavoce del Popolari, e con Macron, che diventa l’alfiere dei liberali.
In Grecia, tornano a vincere i conservatori di Nea Demokratia che stanno nel Ppe, con oltre un terzo dei voti, davanti alla sinistra di Syriza del premier Alexis Tsipras, con più d’un quarto dei suffragi. Arretra la formazione di estrema destra Alba Dorata, che perde quasi il 40% dei suoi voti.