Il Parlamento europeo che si riunirà a Strasburgo il 2 luglio per dare inizio a una nuova legislatura, la nona dell’Assemblea eletta a suffragio universale, è notevolmente diverso dai precedenti, perché mai la presenza di deputati sovranisti, populisti, euro-scettici è stata così forte, ma conserva un’impronta europeista e una composita maggioranza favorevole a portare avanti l’integrazione. Si avvia una stagione intensa di decisioni: la scelta dei nuovi vertici delle Istituzioni comunitarie – uno dei primi atti del neo-costituito Parlamento sarà l’elezione del proprio presidente -; la composizione della Commissione europea; l’attuazione della Brexit sanando l’anomalia delle presenze britanniche nell’Assemblea; la designazione del successore di Mario Draghi alla guida della Banca centrale europea. Sei mesi, di qui alla fine dell’anno, per impostare la squadra; poi quattro anni per affrontare le preoccupazioni dei cittadini europei e darvi almeno qualche risposta, su crescita, lavoro, migranti, sicurezza, sfide internazionali.
La mattina dopo le elezioni europee, l’Europa s’è svegliata fuori da un incubo, in parte alimentato da una certa soggezione mediatica di fronte alla martellante propaganda populista ed euro-scettica: l’essere tirata dentro un vortice di sovranismo, che l’avrebbe trascinata in un gorgo fino a riportarla alla casella di partenza del processo d’integrazione, il cui anno zero è l’immediato dopoguerra, cioè un continente annichilito da distruzioni e devastazioni. Rileva Riccardo Perissich, ex braccio destro di Altiero Spinelli e poi direttore generale alla Commissione europea, che “la mancata ondata nazionalista e la sostanziale tenuta dei partiti europeisti, con spostamenti significativi dai popolari ai liberali e dai socialisti verso i verdi, non modifica gli equilibri di fondo del Parlamento europeo, ma rende i compromessi più complicati”. L’Assemblea può uscirne indebolita, come teme Perissich, che ne scrive su AffarInternazionali.it, ma anche rivitalizzata da un dibattito politico che, da più legislature, s’era ridotto alla ricerca d’un compromesso fra popolari e socialisti, purtroppo spesso al minimo comune denominatore.
Se l’Europa è fuori dall’incubo, l’Italia c’è invece dentro: l’incubo della divergenza dal resto dell’Unione, che la rende sola – o quasi – su più fronti. La partecipazione alle urne cresce più o meno ovunque e nella media generale, ma scende in Italia. Che è l’unico grande Paese dell’Unione in cui sovranisti e ‘democrazia diretta’ sono maggioranza assoluta. E insieme alla Polonia è l’unico dei 27 le cui forze di governo non fanno riferimento a nessuna delle grandi famiglie politiche europee che, nei prossimi cinque anni, governeranno l’integrazione. A prescindere dalle variazioni degli equilibri politici interni nazionali, il nostro Paese non ha alleati che gli possano essere utili e non ha riferimenti. Le avvisaglie della nuova legislatura, del resto, sono impervie: c’è un negoziato con la Commissione europea per evitare una procedura d’infrazione per eccesso di debito.
L’Italia e, in misura minore, la Francia si confermano il tallone d’Achille di un’Europa che, altrove, esce dal voto confortata e rafforzata nel progetto d’integrazione, che profezie di cassandre annunciavano come un funerale dell’Unione. In Italia e in Francia le sirene di sovranisti e populisti, xenofobi e adepti della democrazia diretta, confermano una forte presa sull’opinione pubblica. Ma se in Italia la Lega è per la prima volta il primo partito e c’è una maggioranza assoluta sovranista – populista, in Francia Marine Le Pen è davanti al presidente Emmanuel Macron, ma il suo partito era già stato primo cinque anni fa e aveva avuto più voti in percentuale, mentre altre forze populiste eterogenee arretrano e i ‘gilet gialli’ rivelano alle urne la loro inconsistenza.
Altrove, i partiti sovranisti non sono la prima forza in nessun Paese e neppure sfondano, nonostante gli annunci grancassa dell’immediata vigilia; anzi, spesso arretrano, come in Austria, o al massimo mantengono le loro posizioni, come in Germania e in Olanda, dove però si frantumano. Svezia, Finlandia e Danimarca sono Paesi che nelle elezioni politiche nazionali, nell’arco di nove mesi, affidano il governo ai socialdemocratici e contengono l’estrema destra. La penisola iberica è l’area della ‘sinistra che vince’. La Grecia vede il ritorno dei popolari di Nea Demokratia e l’arretramento della sinistra euro-critica di Siryza. Nel Gruppo di Visegrad, i risultati indicano uno sfarinamento della coesione politica dei quattro Paesi, con la Slovacchia che svolta verso l’Ue, la Rep. Ceca che
vota liberale, la Polonia che s’affida ai conservatori e l’Ungheria che non sa se il partito del premier Viktor Orban, che ha la maggioranza assoluta, potrà ancora stare con i popolari o dovrà cercarsi un’altra collocazione.
Il dato di partenza era un Parlamento europeo con 221 popolari e 191 socialisti: da soli, facevano la maggioranza assoluta, 412 seggi su 751. C’erano poi 67 liberali, 50 verdi, 70 conservatori – gruppo che dovrebbe restare solido nella componente polacca, ma perdere molta forza in quella britannica. I gruppi a vario titolo euro-scettici erano l’Enf sovranista del duo Salvini – le Pen (37 seggi), quello ‘della democrazia diretta’ dei Brexiteers e del M5S (48 seggi) e il Gue della sinistra euro-scettica (52 seggi). Una quindicina di cani sciolti completavano l’Assemblea.
Nel nuovo Parlamento, secondo valutazioni affidabili, ma da verificare quando l’Assemblea si sarà riunita e i gruppi si saranno formati, il Ppe s’arroccherà sui 171 seggi e i socialisti sui 144. Una perdita complessiva di quasi 100 seggi, compensata per tre quarti dalle avanzate dei liberali, che saliranno a 107, con i francesi di En Marche e gli spagnoli di Ciudadanos, e dei Verdi, a quota 56. Restano circa 280 seggi, oltre un terzo del totale, che andranno però distribuiti fra vari gruppi: conservatori vecchio stampo – forse 57 -, che non sono europeisti, ma neppure anti-europei, ed euro-scettici dall’estrema destra – forse 74 – all’estrema sinistra – forse 51 -, passando per quelli ‘della democrazia diretta’, che non hanno coesione fra di loro e che devono ancora decidere se e come aggregarsi. I ‘cani sciolti’ sono, per il momento, una quarantina, che stanno ‘cercando casa’.
Dopo le elezioni europee, si profila un quadrilatero europeista nettamente maggioritario – popolari, socialisti, liberali, verdi -, nel cui ambito sono possibili diverse maggioranze politiche. Non c’è, invece, una maggioranza popolari – conservatori con i sovranisti moderati, che qualcuno in Italia continuava a prospettare, nonostante le smentite, a nome dei popolari, di Angela Merkel.
In questo contesto, i leader dei 28 discutono già dal 28 maggio le nomine ai vertici delle Istituzioni: i presidenti di Commissione europea e Consiglio europeo, il ‘ministro degli Esteri’, il presidente del Parlamento e, in prospettiva, il presidente della Banca centrale europea. Un negoziato estremamente incerto, che deve tenere conto di equilibri politici, nazionali, demografici, geografici, di genere. Ma un punto pare assodato: l’Italia ha oggi tre di quei posti chiave – una congiuntura eccezionale – e difficilmente ne conserverà anche solo uno; e dovrà darsi da fare per ottenere un portafoglio valido per il suo commissario.