730 giorni di campagna elettorale, due anni: tanti ce ne aspettano, negli Stati Uniti, di qui a martedì 3 novembre 2020, l’Election Day. Ma come?, dirà qualcuno, se c’è appena stato il voto di midterm. Fidatevi!, sarà un’unica lunga campagna elettorale. Perché Donald Trump, in fondo, quello sa fare davvero bene: il candidato, più che il presidente. L’abbiamo capito noi e l’ha capito pure lui. E perché i democratici partono da (troppo?) lontano: non hanno leader conosciuti a livello nazionale, tranne gli impresentabili, a diverso titolo, Clinton (lui e lei) e Obama, e hanno decine di aspiranti alla nomination, che devono farsi una visibilità prima di darsi battaglia nelle primarie.
Tutto ciò a partire dai risultati del midterm: 1 a 1, Camera ai democratici, Senato ai repubblicani. E’ un pareggio. Ma, poiché sotto sotto i democratici speravano nel 2 a 0, e i repubblicani lo temevano, l’impressione è che Trump abbia fatto il colpaccio in una partita che pareva persa, prima che lui scendesse in campo.
Con il voto di midterm, rispetto alle presidenziali del 2016, l’America della speranza non è tornata: è ancora una Trumpland impaurita, incattivita, chiusa in se stessa, popolata di uomini bianchi spaventati dalla prospettiva di perdere il loro potere sulla loro terra. Dalle urne, escono, però, frammenti di speranza, come l’affluenza molto alta: 113 milioni di votanti, il 49% degli aventi diritto – mai sopra i cento milioni in passato, a parte le presidenziali -.
E come i successi della diversità. Il numero record di donne candidate – 237 alla Camera – produce il record delle elette – oltre cento saranno deputate: il primato era 84 -, fra cui le prime musulmane al Congresso, la prima nativa americana, la più giovane mai eletta. Passa pure, in Colorado, il primo governatore apertamente gay. Vincono le icone di sinistra alternative all’establishment democratico: Bernie Sanders nel Vermont ed Elizabeth Warren, la sceriffa di Wall Street, nel Massachussetts.
I democratici riconquistano la Camera dopo otto anni, ma la loro avanzata non è uno tsunami e neppure un’onda, ma una modesta marea, appena un’“increspatura” dice con ironia la portavoce della Casa Bianca Sara Huckabee Sanders. L’opposizione a Trump perde tre corse simbolo, dove sono impegnati i suoi astri nascenti: in Texas, Beto O’Rourke esce sconfitto dal senatore uscente Ted Cruz; Andrew Gillum in Florida e Stacey Abrams in Georgia falliscono l’obiettivo di diventare governatori, i primi neri nei rispettivi Stati.
In proiezione 2020, Trump può essere a quest’ora più fiducioso: il voto di midterm è andato meglio per lui di quanto non era andato per Clinton e per Obama – Bush ne era uscito bene solo perché c’era stato l’11 Settembre -. Prima di spegnere la Fox e andare a dormire, il presidente twitta: “Grandissimo successo, grazie a tutti”; non è vero, è un’esagerazione, come tutto quel che lui dice.
La seconda metà del mandato di Trump sarà ben diversa dalla prima: il magnate dovrà confrontarsi con un Congresso spaccato, con una Camera che gli farà la guerra, che cercherà di rallentare l’iniziativa legislativa della Casa Bianca e che potrebbe progettare di avviare l’impeachment o d’istituire commissioni d’inchieste su tutti i fronti di comportamento presidenziale discusso e discutibile, il Russiagate, conflitti d’interessi, elusioni fiscali, comportamenti personali. O che potrebbe cercare il dialogo.
Lui probabilmente continuerà a fare campagna piuttosto che governare. Magari cercando di trarre profitto dell’incertezza che serpeggia fra i democratici: non hanno un leader, né un candidato, né una linea. Accentuare la polarizzazion,e oppure provare a tornare al centro, dove, prima di Trump, si vincevano le elezioni? O’Rourke, sconfitto, ma battagliero, sul centro la pensa così: “Sulle strade del Texas, al centro ci sono solo gli armadilli morti”.