30La scorsa estate è stato deciso dal Parlamento di introdurre come disciplina specifica di ogni ordine e grado di scuola, pur non affidata a uno specifico docente, l’Educazione Civica. Abbiamo preso spunto per un veloce ‘ripasso’ dei fondamenti del nostro senso civico: i dodici Principi fondamentali della nostra Costituzione. Più che articoli di attualità, i presenti sono riflessioni estemporanee sull’attualità di quei princìpi che 72 anni fa i padri costituenti hanno tratto dalla tradizione che li precedeva, dagli errori commessi dalla storia, dalle speranze che quel tempo ispirava. Su questa strada a ritroso abbiamo parlato di democrazia e cittadinanza attiva, diritti e doveri, lavoro, vicinanza delle istituzioni, fino ad arrivare agli articoli 6, 7 e 8, che in vario modo coinvolgono il pluralismo etno-cuturale e religioso, dando piena attuazione all’articolo 3, cioè alla pari dignità dei cittadini nelle loro differenze: l’articolo 6 riconosce e tutela le minoranze linguistiche, con una svolta di importanza storica dopo l’autarchia linguistico-culturale fascista; gli articoli 7 e 8 regolano i rapporti paritari fra Stato e altre religioni, a cominciare dalla Chiesa cattolica, interlocutore storicamente principale, distinguendo i due «ordini» religioso e politico come indipendenti e sovrani. Riflettere su questi articoli è una coincidenza particolare in questi giorni, in cui il discorso politico fa tornare di nuova attualità quel tema sotterraneo e mai del tutto risolto che è il rapporto fra pluralismo e identità.
È da qualche tempo che simboli religiosi ed evocazioni identitarie giocano un nuovo ruolo centrale nella lotta politica. È di qualche giorno fa lo slogan della leader Giorgia Meloni: «io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana. Non me lo toglierete!». In un mix di orgoglio e vittimismo si vuole creare un’atmosfera emergenziale e di allarme, partendo dal primato dell’identità, o meglio dal primato dell’«io»: è «Giorgia», è il leader, a difendere i valori di tutti incarnandoli in prima persona, in un paradossale gioco di identificazioni. Viene in mente il «sacro egoismo per l’Italia» (Salandra, 1914), risalente all’ideale della politica di potenza che portò il vecchio Regno d’Italia alla tragedia della Grande guerra. Oggi come ieri, «definirsi» diventa una priorità, dire «ciò che siamo», parafrasando Montale. In questa logica bisognerebbe difendere e lottare per la propria definizione, per il proprio nome, per non confondersi in ciò che non ha radici, a sua volta definito «pensiero unico». Il paradosso sta proprio qui: la logica identitaria conferisce un’identità (minacciosa quanto nebulosa) anche a ciò che si ritiene mancarne, cioè gli avversari politici, visti come rapaci ladri di identità al servizio di poteri forti e invisibili, decisi ad omologare il mondo intero privando i cittadini connazionali italiani dei loro diritti; e per di più, per difendere questa libertà fondata in «Dio, patria e famiglia» l’unica proposta è arroccarsi e difendere «quello che siamo»: «se vuoi essere cittadino italiano, lo devi volere, lo devi sudare, lo devi meritare. E quando la cittadinanza ti viene data si deve celebrare. Da noi funziona così: la cittadinanza non è un diritto, ma un premio per chi rispetta le nostre regole, le nostre leggi e la nostra identità»; la cittadinanza, tesoro prezioso da proteggere, è una merce da non far svalutare, e da conservare gelosamente.
In Italia, in Europa e nel mondo soffia il vento della precarietà, che porta istintivamente ad aggrapparsi a qualsiasi cosa dia l’aria di reggere. Niente di meglio che il vecchio ideale nazionalista, ora aggiornato con il nome ‘sovranismo’. Il tragico paradosso è che proprio questo presunto ritorno alle origini e difesa delle radici di popolo sovrano, italiano e cristiano, presuppone e auspica un’omogeneità e una rigidità della comunità politica non solo inesistenti nei fatti, ma di principio contraddittorie con la vera storia dell’Italia repubblicana, che fin dagli articoli 3, 6, 7 e 8 della Costituzione prospetta un’orizzonte di apertura sempre maggiore al riconoscimento del valore e del diritto dell’altro, delle diversità, del pensiero plurale, non ‘unico’.