Marzo sembra ormai lontano. Un mese nefasto, uno dei peggiori in assoluto per l’Italia e non solo dalla fine della seconda guerra mondiale, quel conflitto che di morti non ne fece 200mila, ma 55 milioni. Eppure – difficile biasimare un simile paragone – oggi il mondo si trova di fronte a una prova altrettanto inedita e difficile.
Prova che ancora testa i nostri nervi e la nostra resistenza alle difficoltà, di sopravvivenza fisica ed economica, ma che sembra lentamente andare verso una fase “due”, diversa per termini e, forse, per sentimento. Per tre giorni di fila, ormai, il numero degli attualmente positivi al COVID-19 in Italia sono andati calando: ciò non equivale a una mancanza di nuovi contagi, che si attestano ancora giornalmente nell’ordine delle migliaia, ma a una differenza con il numero dei guariti e dei deceduti.
La prudenza, mai troppa, deve essere ancora mantenuta alta, ma si può guardare oltre il presente e pensare alla seconda fase. Anche il governo, in questo senso, ha già provveduto a cambiare i toni – corretti, senza dubbio, ma ritenuti forse allarmisti se non autoritari dai detrattori, in un momento in cui ci si appella all’unità più che a ogni altra cosa.
Un esempio possiamo già vederlo nella cartina tornasole che è la figura del premier, Giuseppe Conte. Lo scorso mese è stato tempestato di apparizioni televisive in prima serata, conferenze stampa e decreti presidenziali: i prodromi della fase due, attualmente prevista per il 3 maggio, sembrano invece tornare a essere accompagnati da una comunicazione istituzionale standard, meno personalistica e di appello “straordinario”. D’altra parte, ci si aspetta che dopo un mese la gravità della situazione sia ben chiara all’opinione pubblica.
C’è anche chi ironizza, sul web e non solo: dov’è finito Conte? Ci manca? Ma adesso, mentre si parla di riaperture delle attività produttive, dei locali, dell’applicazione del distanziamento sociale alla vita “esterna”, di obbligo o meno di mascherina e – nota dolente e preoccupante – dell’arrivo dell’estate, Conte torna lentamente all’interno degli schermi e cerca di ricoprire un ruolo più consono alla normale vita democratica.
E non sbaglia, affatto. Le conferenze stampa, per forza di cose, continueranno a non mancare. Sarebbe impensabile, anche per un fatto di dovere istituzionale: la variazione delle direttive straordinarie va comunicata alla popolazione nel modo più diretto e comprensivo possibile. In un certo senso, ma non troppo, anche “spettacolare”. Ma adesso si punta, giustamente, a un nuovo “ingrigimento” della politica, che non dia adito alle voci che vogliono in azione una deriva autoritaria per modi e ideologia.
La vita senza il coronavirus continuerà a mancare ancora per molto – c’è chi pensa un anno, fino al marzo 2021 – ma mutare anche i nostri valori democratici sarebbe un errore e un fallimento. Conte, giurista, questo lo sa: passi l’emergenza, ma che la pubblica istituzione sia la prima a dare l’esempio e mostrare come una situazione critica e straordinaria possa, con il passare del tempo, tornare alla normalità.