Chef Daniele Ciriaco, un “darwiniano” ai fornelli: «L’evoluzione in cucina è un valore aggiunto»

Sguardo fiero, baffi all’insù, bicipiti (e non solo) tatuati. Ad una prima occhiata Daniele Ciriaco ha tutte le carte in regola per essere scambiato per una rockstar, di quelle tutta sregolatezza e orgoglio, che non si mettono mai in discussione e si sentono immortali. Beh, è un classico caso di apparenza che inganna, perché non solo Daniele ha fatto della dedizione e dell’umiltà le sue qualità principali, ma ad un lavoro sotto le luci della ribalta ne ha preferito un altro che si svolge prettamente “dietro le quinte”: lo chef.

Anzi, il cuoco, perché «”Chef” si fa chiamare chi si sente arrivato, per questo voglio che la mia brigata si rivolga a me per nome», ci racconta.

Daniele Ciriaco, riminese, ha un’idea di cucina e del suo mestiere ben precise. Innanzitutto, chiarisce la sua posizione in merito al coniugare tradizione e innovazione, concetto di questi tempi quasi scontato: «Per me bisogna tenere i piedi ben saldi nel terreno ma la testa tra le nuvole. Nel senso che c’è necessità di ricordare sempre da dove si viene, chi si è stati e chi si è, ma non bisogna smettere mai di sognare. Mi dico sempre: sii audace con te stesso e lanciati nella più pazza idea da poter “mettere in bocca!”».

Questo perché, più che di “innovazione” in senso stretto, Ciriaco parla di evoluzione: «L’evoluzione culinaria è un processo, un destino dal quale nessuno può scappare. La cucina si evolve in maniera naturale, come accade per qualunque altro aspetto della società. I giovani d’oggi entrano in cucina con tecniche e innovazioni che io neanche potevo immaginare esistessero agli albori della mia carriera, novità che ho dovuto sudare per padroneggiare e studiare per capirle e metterle in pratica. L’evoluzione, come in natura, non causa alcun danno alle abitudini culinarie oramai quotidiane e fossilizzate: è una legge sul tempo che, se gestita al meglio, rende più forti e intelligenti. Se è vero che, per gli animali, è stato il pesce fuor d’acqua ad evolversi, da un punto di vista di cucina è ora di imparare a camminare».

Il punto di partenza sono senz’altro le materie prime: «Il rispetto per i prodotti di partenza è l’ABC di questo mestiere. Non è importante solo la ricetta, o il piatto finale, ma anche ciò che la compone».

Tutto, però, mantenendo sempre «una lucida follia nel trovare i giusti abbinamenti nei periodi migliori. È un’immatura e ribelle prova con me stesso, per vedere fin dove posso arrivare e fin dove può essere apprezzata una mia sperimentazione». Per Daniele, infatti, la cucina è libertà e il suo stile non è riconducibile ad alcuna tradizione culinaria ben precisa. La curiosità è un motore importante per lui, motivo per il quale non smette mai di essere cliente di altri ristoratori: «Quando mi reco a mangiare fuori, non lo faccio di certo perché a casa non ho di cosa nutrirmi! Lo faccio per vivere un’emozione, un’esperienza e, allo stesso tempo, ci vado per conoscere quei prodotti, quei sapori, quelle abitudini a me ancora ignote. E, magari, approfondire il legame con i miei commensali. Stare a tavola, significa anche conoscere e conoscersi».

Daniele non perda mai di vista i suoi obiettivi e, nonostante possa vantare esperienze di rilievo e diversi premi e riconoscimenti, non si monta la testa: «Un contest non è un’autocertificazione alla propria bravura, ma una motivazione che spinge a fare sempre meglio e a superarsi. Tempo fa, ad un concorso, arrivai secondo, ma dopo lo chef stellato Felice Lo Basso: un orgoglio, per me».

Il consiglio di Ciriaco per le nuove generazioni? «Caricarsi il proprio bagaglio conoscitivo di pazienza, passione e dedizione ma, soprattutto, di tanto studio, non tanto per confermare ciò che la cucina è, ma per immaginare quello che la cucina sarà».

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