E dopo aver visitato il Santuario di Loreto e aver “nutrito lo spirito”, perché non riservare un po’ di attenzione anche al corpo?
Ecco che, in questo senso, interviene lo chef del ristorante “Andreina” a Loreto, Errico Recanati. Allievo di Vissani.
Giovane chef di 47 anni.
Ristorante che ha “una storia” e che è stato fondato 62 anni fa.
Errico è un uomo affezionato al suo lavoro, alla cucina, al gusto per i piatti della tradizione locale.
Ai figli Rachele, di 11 anni, e Riccardo di 8 trasmette: “il rispetto: declinato in tutto, a partire dal saluto, dalla sicurezza e dal sorriso. Questo ti mette in luce in maniera diversa”. Come persona.
La sua è una cucina “neuro-rurale”, nata dalla libertà e dalla passione.
Tutto nasce con la nonna Andreina (da qui appunto il nome del ristorante!), che gli ha trasmesso un’ottima “malattia”: quella di poter fare contenti gli ospiti. “Una malattia da curare, alimentare e tenere sotto controllo”.
Era un ragazzo normalissimo, Errico, che da grande avrebbe voluto fare il veterinario. Ha frequentato la Scuola di Agraria e, poi, si è avvicinato al mondo della ristorazione. Prima in sala e poi in cucina. Non si trovava bene in sala, dice, anche se ora ci deve andare spesso per trasmettere la sua idea di ristorazione.
“C’è un ritorno in sala, ma io preferisco stare intorno al mio fuoco, alla mia brace, che rappresenta un punto caldissimo e importantissimo. Il punto del fuoco è sempre acceso, dà calore, trasporto e mi ricorda Andreina. Guardando un pezzo di carne che da una parte è bruciato e dall’altro no, mi ricordo la mia vita: croccante fuori e morbida dentro. Oggi sono tre anni che la nonna è morta, ma in me vive la sua determinazione, il sesto senso per il fuoco e la voglia di fare sempre le cose bene, di dare il massimo. Lei voleva tutto. La mamma è in vita e dà una mano ogni tanto”.
Tutti i piatti della cucina nascono, perché gli piace pensare a quello che può fare alla brace.
L’ostrica alla brace, per esempio, che è un piatto nato nel 2010 (avanguardista) e si abbina a una delle regine della caccia: la lepre. L’altro è lo scampo, che fa da cavaliere e da accompagnatore, con la sua dolcezza e la sua croccantezza. Lo scampo viene cucinato solo da una parte, senza girarlo. Da abbinare a pesche saturnine, senape e aceto di rapa rossa fatta da loro.
E poi, il piccione e il maialino allo spiedo, che erano “i piatti della nonna”.
Nel 2012 il suo ristorante ha ottenuto la Stella Michelin. In quell’occasione, sono stati invitati alla premiazione a Pero (Milano). Lui è andato assieme allo zio e, poiché aveva il telefono scarico, si è dovuto far prestare un cellulare da qualcuno/a per avvisare la mamma. Quello è stato il momento in cui tutto ha avuto inizio!
La scintilla che ha…acceso i fuochi!
Chiediamo a Errico se ha un personaggio, uno chef che lo ispira.
Risponde: Mauro Uliassi. Lo trova molto bravo, una grande testa e con una grande equipe. È un “personaggio” importante, che ammira. Così come ammira Moreno, uno dei pochi italiani da cui ha sempre voluto apprendere.
“Io sono l’uomo del carbone, l’uomo del fuoco e vado avanti per quello che è il mio percorso” dice di sé stesso Errico.
Il suo ristorante può contare su 35/40 coperti.
E può vantare specialità di grande qualità. Come il tartufo di Acqualagna, gli spaghetti cacio e sette pepi, le olive ascolane scomposte, la battuta di carne marchigiana, la farina di tenera ascolana, il pane fritto, il pane al formaggio sfogliato, la focaccia al lievito madre, i taralli pepe e ciccio, il pane di segale, da gustare con burro affumicato con la cenere …. e poi…… e poi…. lo gnocco di patata cotta sotto la cenere, la lepre in salmì (limone, pomodoro, olive, salvia, rosmarino, etc…), latte di kefir e cicoria selvatica. Prima lo gnocco era viola, poi la patata viola è stata abbandonata, hanno preso una patata di Montemonaco. Scampi con mango, yogurt, uova di trota e sopra bottarga di carne di cuore di agnello, leggermente marinato, lasciato appeso sotto al camino per 4 giorni, così da prendere i sentori della brace e una parte di burro acido.
Semplicemente una meraviglia!
Ha “rubato” alla nonna l’intensità e la profondità del salmì: cottura che lui usa per la lepre e che la nonna era particolarmente brava a utilizzare, per esempio, per preparare il ragù.
Ma qual è l’”eredità” che gli ha lasciato la sua esperienza con Vissani?
“Per me è un grandissimo personaggio, che mi ha lasciato la sapienza e la conoscenza della materia prima”
Da Pietro Leemann, invece, ha appreso il “rispetto assoluto per il mondo vegetale”.
“Facciamo anche piatti per vegani” dice orgogliosamente.
Tra i “grandi” che lo hanno ispirato c’è anche Martin Dalsass, un “altro importante cuoco che mi ha aperto più la visione europea”.
“Ogni anno, finito il periodo di lavoro, vado a farmi 15 giorni di approfondimento in cucine di grandi chef internazionali, come Quique Dacosta e Ferran Adrià (‘tecnica, sapore, maniacalità su tutto’). Lui (Adrià) per me è speciale”, dice.
Gli piacerebbe lavorare con Victor Arguinzoniz del Ristorane Etxebarri, nei Paesi Baschi, e con Kobe Desramaults in Belgio.
Il piatto deve essere vero, fatto in un territorio, utilizzando i prodotti di un terreno, un mare, una campagna: questa è verità, da riportare nel piatto, in base alla propria sensibilità. Questo è il bello della cucina italiana. Ognuno ha il suo modo di fare, di esprimersi, la propria sensibilità, dice Errico parlando della cucina e di cosa deve rivelare.
Fra 10 anni vorrebbe vedere sé stesso lavorare in una fattoria di sua proprietà, in campagna, nelle Marche, con i suoi animali, però “devo assolutamente vedere il mare e i Monti Sibillini, perché questo è il mio mondo”, precisa.
C’è un rimpianto? Qualcosa che avrebbe voluto fare e che non ha fatto?
L’unico rimpianto è quello legato ai viaggi “Avrei voluto girare di più e fare più stage all’estero”. Una passione che si è trasformata in “malattia buona”.
Errico è uno chef curioso e ama sperimentare, combinare, amalgamare. La sua è una cucina approfondita e ben studiata. È questo il segreto del suo successo. Un ringraziamento, però, lui lo dedica con convinzione alla sua equipe. Come Matteo Mangiapane, che è stato nominato “Miglior sommelier delle Marche” nel 2008. E poi: Valerio, Roberto, Laura, Martina, Mario, Luigi e i ragazzi e le ragazze della sala.
“Quando cucino mi sento libero, non quando organizzo o compro. Sentire la partenza dell’olio, con un pesce, vedere i colori che si amalgamano… mi sento libero e fortunato. Faccio quello che devo fare”, racconta.
“Oggi sono un uomo felice e sereno: nella vita si cade, ma questo fa parte della vita. Sto cercando di stare bene con me stesso. Mangio tutto, mi piace fare la parmigiana, ma non mi piacciono le melanzane. Da quando ero bambino”.
Ma come sta andando la sua cucina e il suo ristorante in questo periodo particolare di pandemia?
Il Covid19 è un problema enorme per tutta l’umanità, perché ci ha messo di fronte a una cosa invisibile e ha bloccato tutti e tutte. Ci ha mostrato la nostra nudità: siamo indifesi. La ristorazione è stata trattata non bene e nessuno ha speso parole in sua difesa. Non possiamo paragonare la ristorazione al settore dei bar, perché vi sono scelte e investimenti differenti. “Noi, per esempio, siamo una equipe di 12 persone, a prescindere dai clienti che arrivano: dal nostro giardiniere fino al ragazzo delle pulizie. Non c’è stata tutela neanche per loro” fa notare rammaricato.
“Saremmo voluti ripartire con ‘Andreino A Mare’, un ristorante al mare per fare delivery: un sogno, un’idea che spero di realizzare presto. Questa estate sarà il ristorante del mio orto, che farà cucina semplice, abbinata ai piatti del territorio, per dare un’offerta più leggera. Un orto con 46 piante aromatiche, piante di ciliegie, albicocche, fiori eduli, etc…e la “collaborazione” delle api!
Mentre ascoltiamo parlare Errico, assaggiamo delle ottime olive ascolane.
Ci racconta il “segreto” per farle in modo ottimale. Naturalmente, non sveliamo niente. Diciamo soltanto che, quando “casualmente” capiterete in questo ristorante, vale la pena provarle.
Come antipasto. Poi……di continuare con le altre ricette.