FLAVIO DE MAIO E IL “VELAVEVODETTO” IL TEMPIO DELLA CUCINA ROMANA NELLA CAPITALE E A MILANO

Sorge a Testaccio – il quartiere di Roma nato dall’accumulo e dalla sedimentazione dei frammenti di anfore olearie che arrivavano da tutto il Mediterraneo e confluivano nel vicino porto fluviale della capitale dell’Impero – la sede storica del ristorante “Velavevodetto”, marchio sinonimo di cucina tipicamente romana nato qui con il suo primo locale nel 2009 – il “Flavio al Velavevodetto” – e progressivamente esportato altrove, dapprima, nel 2012, in un’altra zona della Capitale – Piazza dei Quiriti nel quartiere Prati dove si trova il “Velavevodetto ai Quiriti”– e poi, a partire dallo scorso 11 settembre, a Milano, con il “Velavevodetto Milano”, situato nei pressi di Piazza Duomo e dell’Università Statale del capoluogo lombardo.

Dominus e anima dell’intero progetto, oltre che eponimo del locale di Testaccio, è Flavio De Maio, che dopo una più che ventennale carriera nel campo dell’informatica, scelse di imprimere una decisa svolta alla propria vita, affascinato dalla possibilità di intraprendere una carriera nel mondo della cucina: dopo la prima esperienza in un’istituzione della cucina romana come la trattoria “Felice”, sempre a Testaccio, che lo ha formato sulle metodologie del lavoro di cucina e lo ha sensibilizzato rispetto alla scelta delle materie prime, ha aperto, come si è detto nel 2009, il primo dei tre locali che attualmente gestisce. Ed è qui che si è formata quell’idea di cucina che da sempre caratterizza la proposta di De Maio, ispirata – come lui stesso racconta nel suo libro “Flavio De Maio. L’oste della porta accanto” scritto a quattro mani con Dario Torromeo – alla lezione di sua madre e di sua nonna, capaci di fondere insieme, nella loro cucina casalinga, ‹‹tutto quello che la tradizione imponeva›› con ‹‹la passione di donne che amavano profondamente quello che stavano facendo››.

Ecco allora che la cucina di De Maio, nelle sedi romane come anche, nel prossimo futuro, in quella milanese, si presenta come il trionfo della romanità ai fornelli, a cominciare dalla pasta, preparata nelle versioni proprie della tradizione capitolina, dalla gricia all’ amatriciana, dalla cacio e pepe alla carbonara; proprio quest’ultima è una sorta di feticcio ed epitome della cucina di De Maio, il quale, nel già citato libro, si augura ironicamente di poter morire subito dopo aver realizzato la ‹‹carbonara perfetta››. Oltre che nei primi piatti appena ricordati, tracce profonde di romanità si ritrovano anche in tutte quelle proposte, di antipasti, primi o secondi, in cui, come appunto da tradizione, si ritrovano tagli di carne forse meno pregiati ma ugualmente saporiti: si segnalano, tra gli altri, l’insalata di nervetti e la trippa tra gli antipasti, i rigatoni con la pajata e le fettuccine con le regaje (o rigaglie) tra i primi, le animelle, la coda alla vaccinara e la coratella d’abbacchio con cipolle tra i secondi; proprio l’abbacchio la fa per così dire da padrone tra i secondi, essendo proposto in diverse varianti che si aggiungono alla coratella (in costolette fritte o alla scottadito, brodettato – con finitura a base di salsa d’uovo, limone e prezzemolo – alla cacciatora o al forno con patate). Notevole infine anche la proposta dei fritti, che ugualmente spazia un po’ in tutte le sezioni del menù, passando dai carciofi alla Giudia, i fiori di zucca, il fritto misto vegetale e i supplì rigorosamente fatti in casa negli antipasti alle polpette fritte di bollito e al baccalà fritto nei secondi.

 

Foto di Simone Paris

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