“Fuje accussì ca cu ll’acqu’e a farina nu bellu guaglione a facette ncantà. Po guardaie da bandiera e culure, pensaie nu numento dicette Maistà, mo ce metto ddoje pummerulelle cu sta muzzarella e na fronna d’està. Po nu furno vulett’appiccià, dduie minut’e va faccio assaggià; chella pizz’a nventaje pe’a reggina perciò Margherita l’avetta chiammà”.
Così la raccontano a Napoli, e così la racconta la celebre canzone napoletana, ‘Napule’. E questa è la leggenda della nascita della regine delle pizze, la Margherita, la più classica, la più conosciuta in tutto il mondo, la più semplice da preparare, perfetta nel suo equilibrio di gusto e sapore. Pomodoro, mozzarella e basilico, tre soli ingredienti unici, che rendono quel disco di pizza, una vera magia gastronomica.
Appunto, la pizza, italianissima, nata a Napoli e conosciuta in tutto il mondo, stava smarrendo le proprie origini.
Scriveva, nel luglio 2016, Federico Rampini su Repubblica: “Per i supponenti newyorkesi, noi italiani siamo una banda di zotici usurpatori che manco sanno come si mangia correttamente il loro piatto nazionale: la pizza”.
Già, gli americani credono di essere i creatori del celeberrimo piatto, e nei fatti sono anche i principali consumatori con 13 chili di pizza a testa, consumata in un anno, mentre gli italiani guidano la classifica europea con 7,6 chili all’anno, e staccano spagnoli (4,3), francesi e tedeschi (4,2), britannici (4), belgi (3,8), portoghesi (3,6) e austriaci, che con 3,3 chili di pizza pro capite annui chiudono questa classifica.
Sono i principali consumatori mondiali e anche i principali produttori mondiali con due grandi catene americane che producono pizza nel mondo: Pizza Hut e Domino’s Pizza, che è arrivata addirittura, ad aprire, in Italia, pizzerie con il suo marchio.
Per questo il riconoscimento UNESCO ricevuto qualche giorno fa a Seul, è, per Napoli e per l’Italia stessa di straordinaria importanza.
Infatti, ufficialmente, la pizza e l’arte del pizzaiuolo napoletano diventano patrimonio culturale dell’Umanità Unesco.
La pizza diventa così il settimo ‘patrimonio’ intangibile italiano ad essere riconosciuto, arricchendo un elenco tricolore che comprende già, ad esempio, lo Zibibbo di Pantelleria, e la nostra dieta mediterranea.
Il Consiglio UNESCO, riunito a Jeju, nella Corea del Sud, ha così motivato la decisione presa all’unanimità: “Per Unesco le competenze legate alla produzione della pizza, che include gesti, canzoni, espressioni visuali, gergo locale, capacità di maneggiare l’impasto della pizza, esibirsi e condividere è un indiscutibile patrimonio culturale”.
E tale riconoscimento chiude un lungo percorso, portato avanti dal Ministero delle Politiche Agricole, che aveva presentato, già dal 2009, un corposo dossier per la candidatura italiana, coordinato dal professor Pier Luigi Petrillo, in collaborazione con le principali associazioni italiane che promuovono e difendono la pizza, dall’Associazione Verace Pizza Napoletana, all’Associazione Pizzaiuoli Napoletani, ad esempio.
Un successo non solo d’immagine, questo, ma che in sé comporta enormi vantaggi.
Innanzitutto è una forma di tutela della pizza e dell’arte del pizzaiolo made in Italy.
Il comparto della pizza in Italia, vale 200 mila posti di lavoro, i pizzaioli sfornano ogni giorno 8 milioni di pezzi, che fanno quasi 192 milioni di pizze al mese e 2,3 miliardi l’anno, per un giro d’affari di 12 miliardi di euro (dati Cna 2016).
Ora tutelare tale comparto, fornirgli nuovi strumenti di difesa da mercati aggressivi che usano ed abusano di un prodotto nostrano spacciandolo per proprio, è un primo, significativo passo.
Non solo per la commercializzazione, ma anche una maggiore tutela contro ogni forma di contraffazione, sia del prodotto in se, sia delle materie prime utilizzate, troppo spesso pure di qualità scadente.
Poi, se grandi realtà commerciali italiane, nascessero per iniziare a produrre ed esportare pizza con un vero marchio made in Italy, sarebbe un secondo significativo passo.
Perché è profondamente assurdo che siano due catene commerciali americane a commercializzare il nostro prodotto pizza in tutto il mondo.
E la stessa pizza può divenire seriamente, anche l’immagine positiva di una realtà come Napoli, da diffondere nel mondo, un immagine simbolo di tradizioni e forti identità, che può assumere il ruolo di ambasciatore di una città e di un Paese intero.
E forse, allora, gli Americani la smetteranno di affermare di essere i creatori della pizza, e si limiteranno semplicemente, a consumarla; magari una vera pizza, margherita o altro, che sia comunque fatta ad arte e a mestiere, con prodotti genuini, certificata e tutelata, senza inventarsi nulla. Perché l’assurdo della pizza all’ananas è, purtroppo, una blasfemia che gira ancora nel mondo e mortifica la vera regina della pizza.