All’inizio del Neolitico, tra i 10000 e i 9000 anni fa, alcuni nostri antenati dimenticarono dell’uva all’interno di un recipiente. Qualche tempo dopo, alla riapertura, trovarono un liquido dal colore intenso e dal profumo inebriante, che oggi noi sappiamo essere stato il prodotto di un processo di fermentazione naturale.
Qualcuno di loro avrà assaggiato la strana bevanda e immaginiamo che debba averne apprezzato il gusto, perché già poche migliaia di anni dopo, intorno al 4100 a.C., esistevano aziende vinicole ante litteram come quella di Areni, in Armenia, che offre la più antica testimonianza di una produzione vinaria organizzata. La domanda di mercato, insomma, doveva essere già ingente.
Sin dal momento in cui ha scoperto come produrlo, l’uomo non ha più smesso di sorseggiare vino, una storia d’amore che si è andata arricchendo nel tempo di sapori e fragranze, di veri e propri rituali degustativi di elegante convivialità.
Nella Grecia antica esisteva una tipologia di vasellame appositamente ideata perché il vino – il celebre vino puro, quello con il quale Odisseo riesce a rendere ebbro Polifemo, miscelato però ad acqua, che ne ingentilisce gli effetti disastrosi sperimentati dal Ciclope, e arricchito con spezie – venisse versato interamente nelle coppe (kylikes) senza che nemmeno una goccia andasse perduta: il nome di questo vaso è oinochoe (da oinos, vino, e il verbo cheo, versare) e nella sua versione più riconoscibile ha un orlo trilobato, un collo più o meno basso e un ampio corpo ovoidale.
Il vino in Grecia è stato protagonista di dibattiti filosofici, di musica e giochi – come il còttabo, un tiro al bersaglio armati dell’ultima goccia della propria coppa – nel corso dei celebri simposi, divenendo così motore di conversazioni politiche e dissertazioni sulle più alte questioni morali ma anche di scherzi e avances più o meno andate in porto. Di vino, tra le altre cose, hanno cantato nelle loro odi poeti lirici straordinari come Alceo, Archiloco e Anacreonte, che ne hanno lodato il potere quiescente, il conforto dato all’animo abbattuto, il tepore che regala nei mesi invernali mentre al di fuori imperversa il gelo.
Anche i poeti romani celebravano, alla greca, gli effetti benefici del vino. Memorabili le odi in proposito di Quinto Orazio Flacco, poeta di età augustea, che in un componimento (il 21esimo del III libro) addirittura, utilizzando la terminologia e le movenze di una preghiera sacra ad una qualche divinità, con l’ironia che gli è propria, invitava l’anfora appesa alla parete a scendere, come una dea, per riscaldare gli animi più duri, per portare un sonno pacifico, per dare speranza alle menti ansiose.
Il vino menzionato in quell’ode è il famoso Massico. I romani consumavano anche vini greci, in special modo quelli di Chio e di Lesbo, ma avevano una chiara predilezione per quelli italici, frutto di una lunga tradizione viticola. Il Cècubo era uno dei più pregiati, ma quello in assoluto più celebre e consumato era il Falerno. Una testimonianza eccezionalmente conservatasi della varietà dei vini disponibili per il palato di un avventore romano del 79 d.C. la si trova ad
Ercolano, nella famosa “locanda” cosiddetta ad cucumas, che reca all’esterno un vero e proprio listino prezzi affrescato a beneficio dei clienti.
Già in epoca romana la zona di Narbonne e di Bordeaux, all’epoca parte della Gallia Narbonense, espanse a tal punto i suoi commerci di vino invecchiato in botti di rovere che a Roma, nel tentativo di tutelare gli interessi economici dei produttori italici, emanarono una legge che limitava la produzione del concorrente vino “francese”. Oggi sappiamo bene che l’avanzata del pregiato Bordeaux sarebbe stata inarrestabile: 12 bottiglie di rosso sono addirittura volate nello spazio a bordo della Dragon 2 della Space X.
Sarà il Medioevo a perfezionare le tecniche di viticoltura, specialmente nei monasteri, che erano luoghi di sperimentazione produttiva – anche viticola – oltre che centri religiosi. Un miglioramento della qualità e del gusto dei vini si accompagna in quei lunghi secoli all’introduzione dei tappi in sughero, protagonisti indiscussi di tutti i brindisi più importanti delle nostre vite, e delle bottiglie di vetro, materiale che ha un ruolo fondamentale nella conservazione. Una curiosità: la più antica bottiglia contenente vino è stata rinvenuta in una tomba romana a Spira, in Germania, ancora sigillata, e risale alla prima metà del IV secolo d.C.
Nell’epoca cristiana il vino ha mantenuto un ruolo liturgico e simbolico fondamentale: dalle libagioni e sacrifici passa infatti ad essere “corpo di Cristo”, nel rituale dell’Eucaristia che dal 1215 prevede il dogma della transustanziazione.
Ma il vino nei secoli successivi della vita della Chiesa è stato anche un ospite fisso e graditissimo delle lussuose cene tra cardinali, nelle quali si cementavano alleanze da spendere nel successivo conclave e, talvolta, si faceva sciogliere nel calice di un nemico una dose fatale di veleno. In altri, altrettanto sontuosi, palazzi, il vino dei secoli XIV-XVII ha agevolato le conversazioni tra intellettuali e artisti, ha consolato il dolore di tante perdite, conciliato il sonno di molte menti turbolente, nutrito l’ira o la vendetta di altre, e ha festeggiato con papi, principi e sovrani vittorie militari e successi politici.
All’inizio di quest’anno alcuni degustatori hanno sorseggiato per la prima volta nella storia un vino invecchiato al di fuori dell’atmosfera terrestre, che aveva trascorso 14 mesi a bordo della Stazione Spaziale Internazionale.
Insomma, che si tratti di un simposio, della tavola di un sovrano o dell’orbita terrestre, quello tra la mano dell’uomo e un calice di vino con il suo miscuglio di sapori, aromi e colori, è un sodalizio che sembra destinato ad “invecchiare bene”, come vuole il proverbio.